Legislazione
Davvero hanno chiuso le porte dell’università e non se ne sono accorti?
Alcuni giorni fa è stata pubblicata da Repubblica la lettera aperta al presidente Napolitano con cui Cosimo Lacava, ricercatore italiano ora di stanza in Gran Bretagna, sollevava il problema della chiusura di prospettive certe o quantomeno controllabili di carriera universitaria in Italia a seguito degli ultimi provvedimenti.
Il documento è sostanzialmente composto di osservazioni di buon senso, pur prestando il fianco ad alcune critiche sulle interpretazioni. Per esempio, imputare la chiusura delle immissioni in ruolo alla sospensione del provvedimento che lega la creazione di nuovi posti da professore ordinario all’assunzione di ricercatori sottoposti al (molto) cosiddetto tenure track (la questione è già stata esposta su queste pagine da Guri Schwarz) dovrebbe implicare che prima tale ciclo di immissioni fosse aperto, mentre finora tale norma è servita (ed era effettivamente questa la sua funzione) a bloccare del tutto alcune importanti voci di spesa; di conseguenza, se è sacrosanto porre un problema strutturale di carriere reale e opporsi a uno sblocco fatto soltanto per placare il nervosismo di tanti associati in attesa di uno scatto di carriera senza alcuna contropartita per i precari, la richiesta di tornare a una situazione in cui è stato chiaramente impossibile produrre nuove assunzioni non è corretto.
Il giudizio complessivo su Lacava e sul suo documento diventa decisamente più lusinghiero in una comparazione con le risposte che il suo documento ha suscitato, risposte che offrono un eloquente spaccato della cultura che ha condotto a alla riforma del 2010.
La prima è stata quella di Eugenio Mazzarella, docente universitario di Filosofia ed ex deputato del Partito democratico. L’autore esprime con un candore disarmante, dovuto forse al fatto di aver ormai lasciato la “stanza dei bottoni”, alcune idee-guida del dibattito sul reclutamento ai tempi della Gelmini.
L’idea è stata sostanzialmente quella di stabilire per decreto un percorso rigido di avvio alla carriera accademica dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, con tempi rigorosamente contingentati sulla base di quelli che, secondo le impressioni degli estensori delle norme, erano i tempi “medi” di avanzamento, e con l’assoluta impossibilità di adeguare le posizioni a situazioni variegate e complesse. La fascia dei precari è “la fucina di formazione” del personale che sarà immesso in ruolo negli anni, e nel frattempo, mentre la “fucina” lavora, chi è già dentro va avanti, i ricercatori di ruolo diventano professori, e gli associati ordinari, intanto per avere le “nuove leve” occorreranno anni.
Questa costruzione mentale era sicuramente molto comoda, a priori. In sostanza, si calava la legislazione sul vuoto, in un sistema in cui c’erano solo strutturati che aspettavano la promozione da far avanzare e dottorandi da avviare alla formazione professionale all’attività accademica. Non c’erano complicazioni per l’amministrazione, perché se alla fine dei tempi previsti per un ruolo precario il ricercatore non trovava sbocchi la colpa era sua, visto che non riusciva a stare al passo coi tempi “medi” di progresso di carriera e non era quindi abbastanza “eccellente”. La situazione di vuoto che si era postulata, inoltre, era molto utile per dare tempo a un buon numero di docenti di ruolo di avanzare di grado a suon di piani straordinari, secondo il tacito accordo per cui buona parte della comunità scientifica ha accettato senza proteste troppo radicali riforme chiaramente inefficaci in cambio di uno scatto stipendiale e di considerazione sociale.
Avere queste idee nel 2010 era inammissibile. Solo a volerla usare, il MIUR aveva una messe enorme di dati sulle condizioni dei ricercatori precari che tiravano avanti la baracca. L’aveva acquisita a ogni bando di finanziamento, a ogni FIRB, a ogni SIR. Si è scelto di ignorare tutto e di inventarsi uno scenario di fantasia (del resto, come diceva qualcuno, conoscere la realtà non piace ai legislatori perché rende molto più difficile il loro compito).
Sostenere nel 2014 che dinamiche simili siano ancora possibili, e che il meccanismo non funzioni soltanto per un problema di finanziamenti (come se la loro ristrettezza fosse imprevedibile, peraltro), è criminale. L’entrata a regime dei ruoli della Gelmini ha dato risultati che non ammettono repliche. L’età media degli assegnisti di ricerca, primo gradino post-dottorale, è di 35 anni circa, e segnala un evidente uso distorto della tipologia contrattuale, assai più “parcheggio” per ricercatori esperti in attesa di posizioni più consone alla loro qualità che non avvio alle prime pratiche di lavoro intellettuale autonomo. Le abilitazioni scientifiche nazionali hanno mostrato una capacità degli outsiders precari di raggiungere i risultati richiesti non minore, statisticamente, di quella dei ricercatori già strutturati, e hanno chiarito oltre ogni ragionevole dubbio l’assegnazione del tutto casuale degli ultimi posti di ruolo che oggi segnano, senza mezzi termini, la differenza tra chi nell’università italiana vive e chi muore. I concorsi per i posti da ricercatore a tempo determinato hanno evidenziato la presenza di almeno tre distinte generazioni ancora sul mercato, tutte con titoli e formazione pregressa sufficienti a un passaggio definitivo nell’accademia, con buona pace dell’attesa per “fucina” di cui sopra.
Più accorta, quantomeno, nel tratteggiare la situazione esistente, si è invece rivelata la risposta della senatrice a vita Elena Cattaneo, ricercatrice di vaglia giunta in Parlamento, è il caso di ricordarlo, quanto ormai la frittata delle riforme del 2010 era fatta. La parlamentare riconosce giustamente diverse distorsioni della legge e delle sue applicazioni alla realtà dei fatti, e sostanzialmente pare auspicare per il lungo periodo una politica di sostegno all’immissione di nuovi effettivi negli atenei caldeggiando la definitiva separazione tra pratiche di reclutamento e pratiche di promozione interna, secondo la linea che alcune settimane fa il Consiglio universitario nazionale ha esposto con forza.
Tutto condivisibile, ma anche qui, ed è grave per una componente di un organismo legislativo, si eludono le questioni politiche sottese a questa scelta. Ché in ogni caso separare i due percorsi richiede anche una separazione delle risorse tra i comparti. E questo si può fare in due modi: o l’amministrazione ministeriale stanzia i fondi sulla base di un rigoroso esame delle necessità del sistema e una conoscenza precisa delle situazioni, o lascia ampi margini discrezionali alle sedi stando pronta a verificare i risultati e a intervenire duramente, anche con commissariamenti e messa in discussione generale delle posizioni acquisite, le situazioni insoddisfacenti, secondo gli elementari meccanismi dello steering at a distance.
La burocrazia MIUR e quella delle sedi, finora, si sono mostrate del tutto inadeguate a entrambi i percorsi. La tanto strombazzata “autonomia” si è ridotta in una sorta di “autogestione” in cui il centro elabora strategie senza avere più contatto con la realtà e le impone circolare dopo circolare. La periferia non ha gli strumenti per attuarle, ma non è nemmeno pressata da controlli particolarmente stretti sui risultati. Dal canto suo il personale politico (in questo caso lo mostra bene la Cattaneo, ma in passato, su temi in parte diversi, lo stesso atteggiamento è stato dell’allora ministro Maria Chiara Carrozza) si guarda bene dal fare ciò che gli compete, cioè elaborare proposte politiche di gestione del sistema, preferendo lasciarsi andare a invocazioni moraleggianti all’etica e all’impegno individuale che sanno tanto di declino della responsabilità.
L’impasto di tutto questo è ben riassunto dal lungo comunicato con cui il ministero ha risposto poche ore fa a Lacava. Un messaggio privo di qualunque attenzione a dinamiche strutturali reali, infarcito di dati isolati che puntellano giustificazioni deboli, incapace di guardare agli effetti di ormai quattro anni di regime di nuove norme, e come se tutto ciò non bastasse ancora legato alla panoplia di luoghi comuni che ha guidato l’azione di riforma, dal taumaturgico effetto moltiplicatore sulla qualità del capitale umano del fantomatico “estero” (contrapposto in blocco all’Italia come un nuovo paese delle fate) dove i ricercatori vanno a maturare al continuo fraintendimento tra programmi di ricerca di punta e funzionamento di crociera della produzione di conoscenza abilmente addotto per giustificare il rifiuto di impegnare nuovi soldi.
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