Legislazione

Anticorruzione, la rivoluzione della comunicazione trasparente

25 Febbraio 2020

Intervista a Cosimo Pacciolla, giurista d’impresa e manager di Q8 Italia, sull’evoluzione della Legge 231/2001 a proposito di comunicazione e reati tributari

 

Le best practices adottate nella Pubblica Amministrazione in base alla legge 231/2001 e quelle che andrebbero introdotte. Le procedure e gli organi di vigilanza richiesti per gli enti pubblici e le società a controllo pubblico dalla normativa anticorruzione. I modelli organizzativi previsti per le imprese private, anche alla luce della prossima entrata in vigore del codice sulla crisi d’impresa. I protocolli informativi interni dedicati ai casi di whistleblowing. E il recentissimo decreto fiscale che da quest’anno ricomprende i reati tributari più gravi nel “catalogo” della 231.

Il «Manuale teorico-pratico su Compliance e Anticorruzione. La rivoluzione della Comunicazione trasparente», libro e ebook in uscita presso la casa editrice The Skill Press, analizza a tutto tondo la normativa più recente in tema di compliance, risk assessment e anticorruzione con un focus sui reati legati a queste procedure e sugli effetti distorsivi che hanno sul “sistema Italia”. A parlarne oggi è Cosimo Pacciolla, giurista d’impresa e manager della Q8, uno degli autori del manuale.

La legge 231/2001 impone la creazione di modelli organizzativi per la prevenzione dei reati. E impone che questi modelli siano non teorici, ma effettivamente funzionali e funzionanti. Che cosa significa in concreto?

“Un recente rapporto consolidato grazie alla collaborazione di Confindustria e TIM offre un triste quanto definitivo spaccato rispetto alla distanza tra una corretta ed efficace adozione dei modelli in questione e la realtà applicativa a tutt’oggi nel nostro paese. Servirebbe un’ampia riflessione sull’intero sistema introdotto dalla 231 e più in generale sulla disciplina della responsabilità penale d’impresa.

Ci si dovrebbe domandare cosa intendiamo per modelli “effettivamente funzionanti e funzionali”. Se ci aspettiamo che gli stessi garantiscano una sorta d’impunità per l’azienda – come spesso ingenuamente ritenuto in questi dieci anni di applicazione e clamorosamente smentito nella costante valutazione giurisprudenziale – è evidente la velleità dell’obiettivo.

Come possono, allora, le aziende in buona fede raggiungere questo obiettivo?

“Se consideriamo i “modelli 231” all’interno di un generale e concreto sistema di prevenzione dell’illecito aziendale accompagnato dal quotidiano esempio dei comportamenti del management anche nelle loro espressioni e comunicazioni informali e dirette, abbiamo avviato il realizzarsi di qualcosa se non altro molto vicino al “funzionale e funzionante”.

Inoltre, deve superarsi la prospettiva dei singoli percorsi di prevenzioni separati (231, antibribery, antitrust, ambiente e sicurezza sul lavoro, Gdpr) e autonomi, privi di concrete sinergie e di veri coordinamenti competenti ed esperti. Né si può prescindere in questi percorsi da una cultura giuridica della liability aziendale e del management. Del resto, è la stessa normativa a suggerirlo, ad esempio in materia di sicurezza sul lavoro”.

Un tema diverso ma connesso è il costante aggiornamento di questi modelli che la legge 231 richiede. E’ fattibile? E come?

“In realtà la stessa normativa sul punto da indicazioni concrete e valide, quando richiama gli “eventuali mutamenti organizzativi e del business”. Questa prospettiva però porta con se un processo pressoché automatico di adattamento che richiede un ulteriore sforzo da parte delle aziende, una formazione aggiornata, e spesso una consulenza specifica”.

L’adeguamento spesso solo teorico agli standard della 231 ha riflessi pratici non indifferenti. Ma certo non è solo questo il motivo all’origine dei fenomeni corruttivi. Perché l’Italia, che non è un Paese povero, è così alto negli indici internazionali di corruzione?

“Già valutando la mappa del mondo che ogni anno pubblica Trasparency International (TI) in ordine all’indice di corruzione percepita potremmo individuare una chiave di lettura che ci consenta di rispondere alla domanda. I paesi che risultano maggiormente colpiti dal fenomeno corruttivo non sono tanto caratterizzati da una maggiore o minore “povertà” (che peraltro da sola mal spiegherebbe comunque lo sviluppo dei comportamenti in questione), quanto da una pervasiva presenza della Pubblica Amministrazione spesso non coerentemente efficiente e soprattutto priva di chiare ed efficaci regole procedimentali (per esempio termini definitivi di adempimento) e di conseguenti sanzioni in caso di inadempimento.

A conferma di ciò potrebbero incrociarsi questi dati pubblicati annualmente da TI con i risultati dello studio che la Oxford University pubblica anche in questo caso ogni anno, sintetizzabili nel cosiddetto “ The International Civil Service Effectiveness –InCiSe Index” in relazione appunto all’indice di efficienza delle Pubbliche Amministrazioni europee ed alcune delle più significative del mondo”.

Insomma, la radice del problema corruzione sta nella maggiore o minore “opacità” della Pubblica Amministrazione di quel paese?

“In sintesi, immagini di avere bisogno per la sua attività professionale o anche semplicemente per il suo privato quotidiano, di un provvedimento o solo di un documento da parte di un soggetto di cui non è immediatamente chiaro il perimetro adempitivo – vale a dire con quali tempi e modalità è tenuto a rispondere. Inoltre, rispetto a questo soggetto non sono individuate effettive responsabilità e conseguenti sanzioni certe. Se ne determina inevitabilmente quella che definirei, non senza qualche accenno eufemistico, “induzione in tentazione”. Ed è evidente come tale criticità cresca esponenzialmente in relazione all’importanza del primo degli elementi descritti (la necessità del provvedimento) ed all’aleatorietà del secondo (la risposta del soggetto preposto)”.

 Burocrazia, politica e iniziativa imprenditoriale: come coniugare questi tre fattori in un circolo virtuoso?

“Serve una vera e propria “rivoluzione culturale” declinabile concretamente in tre passaggi:

a.       Riforma strutturale della Pubblica Amministrazione (l’ultima risale a trent’anni fa, già allora nonostante tutti gli indubbi meriti era tardiva e parziale);

b.      Intervento nell’insegnamento scolastico sin dalla scuola primaria che porti al centro della prospettiva formativa i valori di democrazia, solidarietà, giustizia e legalità propri della nostra tradizione costituzionale;

c.       Chiara e definitiva scelta della competenza e dei valori quali riferimenti nelle politiche organizzative e gestionali delle imprese”.

In concreto: sono meglio maggiori controlli e sanzioni certe rispetto alla giungla di amministrazioni preliminari che paralizza il settore?

“Il reale pericolo è l’ipertrofia sanzionatoria, che purtroppo credo sia più che un semplice rischio che il nostro paese sta correndo. Si tende a supplire alla difficoltà di razionalizzare i processi organizzativi con la crescita quantitativa e qualitativa dei profili sanzionatori, fino a perdere di vista la loro stessa effettiva applicabilità.

Altrettanto grave è moltiplicare i controlli preliminari senza domandarsi o verificarne la reale efficacia, soprattutto in assenza di una chiara evidenza sia del limite applicativo sia delle responsabilità in caso di ritardi e/o omissioni.

L’obiettivo deve piuttosto essere un chiaro, essenziale e competente sistema di verifiche e controlli accompagnato da un apparato sanzionatorio altrettanto coerente per proporzione, tempi e modalità applicative”.

Perché e in che modo il settore ambientale è paradigmatico?

“Incrociamo ancora i dati di TI ed InCiSe con il Rapporto sulle performance ambientali Italia 2013 pubblicato dall’OCSE e più recentemente con le osservazioni della Corte dei Conti nella relazione sul “Fondo per la progettazione degli interventi contro il dissesto idrogeologico (2016-2018)” approvata con delibera del 31 ottobre scorso. Questi documenti concludono che lungaggini procedimentali, assenza di chiarezza programmatica, sovrapposizione di ruoli e competenze creano gravi difficoltà non solo ad un coerente sviluppo di politiche ambientali nel nostro paese ma anche all’ordinaria gestione delle attività ed al corretto impiego di ingenti risorse economiche comunque connesse alla tutela del nostro patrimonio ambientale. In questi spazi, s’innesta la mala pianta della corruzione ed aggiungo il business delle associazioni criminali come evidenziato in modo esplicito nelle conclusioni del recente rapporto della DIA.

Aggiungo che in materia ambientale non esiste la possibilità del c.d. “silenzio assenso” in relazione all’ottenimento di qualsivoglia provvedimento autorizzativo e nel contempo non risultano termini perentori di adempimento a carico della Pubblica Amministrazione. Torniamo, insomma, al punto dell’“induzione in tentazione”.

Come può aiutare in questa situazione il ricorso alla “comunicazione trasparente” in un ente o un’azienda?

“La “rivoluzione culturale” di cui parlavo riguarda anche le imprese e sicuramente la “comunicazione trasparente” è una delle sfide in questa prospettiva più significative. Deve trattarsi di trasparenza effettiva, matura e responsabile accompagnata tuttavia, da una coerente tutela giuridica e istituzionale che superi una dialettica stantia basata su inaccettabili pregiudizi. Si tratta di un processo con diversi step. Rendere chiari ed accessibili alle valutazioni dei soggetti istituzionalmente preposti le proprie organizzazioni in termini di catena di comando, processo decisionale e responsabilità. Abbandonare obsolete e inutili interpretazioni degli strumenti di trasferimento di poteri e responsabilità. Rivedere il concetto di compliance, spesso sovrastrutturale e limitatamente efficace nelle organizzazioni aziendali, a favore di strumenti di effettiva prevenzione dell’illecito considerato come patologia di sistema, da prevenire appunto sin dove possibile, gestire e combattere laddove si presenta difendendo l’organismo sano”

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