Legislazione
Accademici che non pubblicano: un problema tutto italiano. O no?
“L’ordinario a fine carriera che non ha mai pubblicato una riga in vita sua”: era questo uno dei temi forti a cui Roberto Perotti, qualche anno fa, dedicava il suo instant book sui problemi dell’università italiana. In questo punto, come in pressoché tutto il testo, l’autore dava acriticamente credito alla radicata vulgata nel discorso pubblico sull’università, in base alla quale da noi fosse possibile raggiungere i più alti livelli di carriera senza provarsi mai, nemmeno una volta, nella circolazione istituzionale nei propri risultati, insieme luogo principale di veicolazione del contributo individuale alla produzione del sapere e strumento di valutazione della qualità del lavoro scientifico.
I dati di fatto hanno ampiamente smentito questa credenza, anche per il caso in cui si accettasse di far coincidere l’assenza di pubblicazioni in un curriculum con l’assenza di pubblicazioni indicizzate in un certo database, come spesso ha mostrato di fare Perotti, mostrando una certa difficoltà a comprendere le dinamiche di circolazione dei saperi invalse in un buon numero di campi disciplinari. Le rilevazioni ministeriali degli ultimi anni, se non altro, hanno dimostrato che non si può giungere a posizioni di vertice nel mondo accademico senza svolgere attività di ricerca pubblica. Intendiamoci: è vero che si può raggiungere tale obiettivo pubblicando male, cose poco interessanti e inaccurate, ma questo è un altro discorso, almeno finché le parole continueranno ad avere un significato. Ed è altrettanto vero, stando a quanto rilevato, che si può far parte della comunità accademica o sopravvivere nel suo sottobosco senza contribuire in modo rilevante al progresso degli studi.
Questo accade in Italia ma, a quanto pare, non solo. Lo scorso 9 novembre il blog su Inside Higher Ed gestito dal Center for International Higher Education del Boston College ha pubblicato un breve intervento in cui lo studioso polacco Marek Kwiek presentava i primissimi dati bruti di alcune indagini in corso sui non-publishing academics in Europa. Secondo quanto riportato, i dati sono stati raccolti su una base di circa 9.000 studiosi attivi full time negli istituti d’istruzione universitaria di 11 paesi (Polonia, Italia, Regno Unito, Austria, Finlandia, EIRE, Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo) coinvolti in una grande raccolta di dati sulle abitudini professionali del personale accademico.
Il primo risultato che balza agli occhi è che, anche limitando lo sguardo al personale docente impiegato presso università (ovvero, tecnicamente, presso istituti di formazione superiore che presentano contemporaneamente programmi di didattica undergraduate e attività di ricerca e di formazione alla ricerca strutturate), tutti i paesi presentano quote significative di accademici che nei tre anni precedenti al sondaggio hanno pubblicato poco (meno di 5 prodotti complessivi) o nulla. E l’Italia non se la passa neppure troppo male, con il 5,4% di self-reported non-publishers e il 25% circa di contributori occasionali al progresso della ricerca, di fronte alle percentuali anche più che doppie nei paesi di lingua tedesca e scandinavi, e addirittura al 40-60% di “inattivi” o quasi negli atenei polacchi.
Kwiek, per ora, pare più attento a sollevare il problema di quella che considera (non a torto) una pesante zavorra nella competizione globale che non a esporre ipotesi per spiegare il fenomeno. Da quanto si legge, comunque, sembra possibile evincere che le radici di questa presenza sono legate alla storia dei sistemi accademici considerati e alla loro differenze evoluzione rispetto agli standard impostisi negli ultimi decenni sulla scia della prepotente affermazione globale dei modelli di comportamento di matrice anglo-americana.
Sarebbe infatti interessante aggregare i dati così da sapere quali sono le fasce di età e i periodi di assunzione del personale poco o per nulla produttivo. Si potrebbe allora davvero valutare quale incidenza abbiano avuto sulla scelta di rinunciare all’attività di pubblicazione scientifica le dinamiche di carriera “a scatti” di tipiche dei sistemi amministrati con criteri pubblicistici (esasperati nei regimi comunisti, a cui non a caso apparteneva il più evidente outlier tra i paesi considerati), o gli effetti distorsivi sulla qualità degli addetti imposti da metodi di reclutamento come quello italiano, storicamente orientato più alla “contrattazione” di esigenze e poteri diversi che alla selezione in base a chiari principi di privilegio della qualità.
Su un piano più generale poi sembra anche che l’Europa, con una tendenza ulteriormente ribadita negli ultimi anni dalle politiche del Bologna Process, sconti il fatto di aver vissuto l’adeguamento degli istituti di istruzione superiore all’accesso di massa mantenendo centrale il ruolo delle università, senza ricorrere in via preminente alla pluralizzazione delle tipologie di istituti con la disseminazione di scuole di specializzazione tecnico-professionale post-secondarie non universitarie. Detto in altri termini, mentre in altre realtà nazionali il personale docente post-secondario che non fa ricerca si è concentrato soprattutto in un imponente sistema di scuole non universitarie, dedicandosi essenzialmente alla didattica e alle attività amministrative e riservando lo studio “sul campo” al proprio aggiornamento professionale, in diversi paesi europei docenti publishing e non-publishing sono stati raccolti e hanno convissuto nelle stesse sedi, magari svolgendo ufficiosamente ruoli diversi e partecipando a corsi di studio differenziati in base agli obiettivi e alla qualità degli studenti, fino a tempi assai più recenti, con conseguenze che arrivano fino a oggi.
La massificazione dell’higher education, ricorda Kwiek, comporta anche la moltiplicazione dei posti d’insegnamento e l’attivazione di programmi di formazione non incentrati sul metodo d’insegnamento proprio della cultura universitaria, ovvero sulla didattica concepita in primo luogo come esposizione diretta e sempre meno intermediata dei discenti alla ricerca più avanzata e allo “stato dell’arte”. D’altro canto è necessario che le sedi di istruzione post-secondaria preposte al coordinamento tra insegnamento si attrezzino per garantire che tutto il loro personale si impegni a contribuire all’avanzamento della conoscenza, anche tenendo conto del fatto che tale settore finisce per rappresentare il vertice dei sistemi di alta formazione, destinato a trovarsi in prima linea in una competizione internazionale fondata proprio sulla qualità del contributo alla ricerca e sulla capacità di formare ricercatori.
I provvedimenti di riforma che Kwiek invoca per l’adeguamento di alcuni sistemi accademici periferici al pieno regime di contributo alla ricerca scientifica degli effettivi delle università sembrano dunque consolidarsi attorno alle due cuspidi dell’indagine per individuare eventuali procedure di reclutamento e di promozione non consone agli standard normativi e “valoriali” attualmente condivisi, così da procedere se necessario ad allontanamenti mirati, e della promozione di processi più strutturati e convinti di differenziazione funzionale delle sedi di formazione terziaria. Il secondo aspetto è quello che maggiormente coinvolge l’elaborazione delle politiche accademiche, e quindi risulta più interessante in questa sede. Alcuni paesi particolarmente avveduti, come la Germania, stanno già mettendo in atto provvedimenti finalizzati a un tale risultato con investimenti mirati. Una simile prospettiva potrebbe caratterizzare con profitto le policies di settore anche in Italia, ma solo con l’adozione di pratiche adeguate. In particolare, piuttosto che impostare a una poco chiara selezione ex ante degli hub su cui concentrare i pochi finanziamenti tagliandoli agli altri con scopi genericamente“punitivi” contro fantomatici e mai chiaramente individuabili “fannulloni” (come parevano invece ritenere opportuno sia il coordinatore della prima VQR, sia l’attuale presidente del Consiglio), sarebbe il caso di stimolare la creazione di nuovi percorsi professionalizzanti paralleli agli atenei per dare maggiore vitalità ai titoli post-diploma di primo grado, e soprattutto di rimettere in moto l’atrofizzata mobilità professionale, così che le diverse tipologie di operatori dell’istruzione superiore possano trovare una più adeguata collocazione di sistema.
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