Parlamento
Lazio, think tank e tanto silenzio: così Zingaretti prepara la sfida a Renzi
ROMA – «Dopo di me c’è il diluvio». Matteo Renzi lo dice spesso, e quando non lo dice lo lascia intendere. La sua strategia politica aggressiva, che punta dritta al corpo maggioritario del paese senza farsi scrupoli di fronte a quel che resta del partito democratico, si fonda proprio su questa scommessa-certezza: l’assenza di alternativa. Perché dovendo scegliere tra lui, la gara populista tra Grillo e Salvini e il Berlusconi di questo crepuscolo, la maggioranza degli elettori non potrebbe avere dubbi. Ma c’è chi non la pensa così. C’è chi pensa che l’alternativa esista, stia proprio nel cuore del Partito Democratico, e abbia il nome di Nicola Zingaretti, “Zinga” per i romani. Che, nel segreto, avrebbe già sciolto le riserve: se si voterà la prossima primavera per le elezioni politiche, Zingaretti sarà in campo. Come leader che sta alla sinistra del Pd renziano? Può darsi, sempre che il «presidente della Regione non sconfigga il premier alle primarie». Sempre che a causa delle difficoltà dell’attuale sindaco Ignazio Marino non sia costretto a scendere in campo per il Campidoglio. Se ci sarà bisogno di lui e spazio per lui più avanti, egualmente, Zingaretti ci sarà. In pubblico, naturalmente, è molto attento a non scoprire le carte, ma in tanti giurano, a Roma e non solo, che il dado sarebbe tratto.
Del resto, a Roma lo chiamano “er saponetta” perché sfugge alle trame del Palazzo e della partitocrazia romana. Sfugge al punto da condurre soltanto battaglie politiche che potranno risultare vincenti. Raccontano agli Stati Generali che emblematica fu la notte del 3 ottobre del 2012 quando decise di abbandonare la corsa al Campidoglio perché costretto dai vertici del Nazareno a correre per la Regione Lazio: «Nicola, sarà per un’altra volta. Oggi – aggiunsero all’epoca i democrat – servi alla causa della regione. Ma stai sereno, stravincerai». E il 26 febbraio dello scorso anno Nicola Zingaretti, 48 anni, già presidente della provincia di Roma, un curriculum da figlio prediletto della sinistra italiana, fu l’unico della “ditta” a trionfare e a scalare il palazzo della Regione Lazio proprio nel giorno in cui Pier Luigi Bersani andò sbattere contro l’exploit dei pentastellati di Beppe Grillo e l’eterno centrodestra targato Silvio Berlusconi. Immaginarlo vestito eternamente da amministratore della regione suona strano. Perché Zingaretti si prepara a rompere gli indugi. Non subito, ovviamente. Prima aspetterà che lo scenario all’interno della sinistra del Pd si definisca. Poi, probabilmente, scenderà in campo. «In prospettiva ha in mente di essere l’anti Renzi», spiegano parlamentari della minoranza in Transatlantico.
D’altronde, al momento la corsa del rottamatore di Firenze appare senza ostacoli: il Pd cresce nei sondaggi, l’indice di gradimento del premier resta immutato, e soltanto lo spettro della Troika può impedire al capo dell’esecutivo e del Nazareno di continuare a pedalare con ritmo forsennato. Ma la politica non è algebra. «Da giovani – racconta con un filo di sarcasmo un navigato deputato del Pd – militavo nel Psi, e ad un certo punto mi ritrovai senza partito. Erano i mesi di Tangentopoli, c’era il vuoto. Potevo mai immaginare che dopo una settimana il leader del fronte moderato si sarebbe chiamato Silvio Berlusconi? Ecco, la politica si rigenera come se nulla fosse. E poi, si ricordi che uno zoccolo duro di sinistra con un 25 per cento ci sarà sempre. Alle europee una lista di quattro gatti, come quella Tsipras, ha raggranellato il 4 per cento senza troppi sforzi. Vuole che se si mettessero insieme i D’Alema, i Bersani, i Civati, i Cuperlo e il fronte popolare, con una leadership giovane come quella di Nicola non darebbero filo da torcere a Matteo?».
Zingaretti, però, diffida degli ammiccamenti che gli arrivano da più parti. Pesa ogni parola che giunge al suo orecchio. Al punto che avrebbe espressamente chiesto che il suo “nome” non venga neppure pronunciato altrimenti “si brucerebbe” in un batter di ciglio così come è stato per Fabrizio Barca. Del resto, il governatore, cresciuto fin da piccolo con i poster in camera di due leader come Massimo D’Alema e Walter Veltroni, sa benissimo come si consumano le leadership all’interno della sinistra italiana. Basta una uscita infelice, una intervista al giornalone con taglio basso, e la carriera è segnata. Ecco perché tesse la tela sotto traccia, tanto sottotraccia che, in concomitanza con la Leopolda e con la manifestazione della Cgil, ha preferito spostarsi a Viterbo, per partecipare a un evento-intervista organizzata dal settimanale berlusconiano Panorama, dove ha colto l’occasione per spiegare che «la Leopolda e la piazza della Cgil dimostrano la vitalità del Partito Democratico di oggi». Con i fedelissimi Andrea Cocco (storico portavoce) e Maurizio Venafro (capo di gabinetto alla regione) a tirare le fila, e con alcuni parlamentari, come Fabio Melilli (segretario del Pd) e Michele Meta, a fungere da sentinelle in Transatlantico. Non entra, insomma, a piè pari nel dibattito nazionale. E non partecipa ai talk show che fanno e disfano i governi del Belpaese. «Il mio programma – avrebbe detto ai collaboratori a pochi mesi dalla scalata in regione – è quello di fare solo bene il mio mestiere, ovvero fare il bene il presidente della regione, ma allo stesso tempo credo sia giusto entrare in contatto con il resto dell’Italia e dare un contributo al Pd per ricominciare a fare davvero il Pd». Del resto, Zinga diffida anche della liquefazione del Pd, del partito senza tessere e del partito della Nazione, evocato qualche giorno fa da Renzi, un partito che secondo la narrazione dell’ex sindaco di Firenze darebbe «piena cittadinanza a Gennaro Migliore e Andrea Romano».
Lui, “er saponetta”, è cresciuto in una famiglia di tradizione popolare e comunista. Con il fratello Luca, il commissario Montalbano per intenderci, che negli Ottanta militava nel Pdup di Lucio Magri, e la mamma che nell’89 si oppose al cambio del nome del Pci. E con Nicola giustappunto scoperto da un notabile come Goffredo Bettini che lo nominò prima capo della Fgci romana e poi alla guida della Sinistra giovanile, l’organizzazione che affiancava i Ds. Il ruolo gli consentì di conoscere tutto lo stato maggiore della nomenclatura di Largo del Nazareno: da Maurizio Martina a Nico Stumpo, passando per Andrea Orlando e Matteo Mauri. Tutti uomini con i quali ha un rapporto preferenziale, e che un giorno potrebbero essere dalla sua parte. L’esperienza della Sinistra giovanile rappresentò l’inizio della scalata di Zingaretti. Una scalata che non arrrivò mai alla vetta: prima responsabile esteri della Quercia nella stagione dalemiana, capo della federazione romana con Veltroni sindaco, segretario regionale dei Ds e del Pd con Veltroni, e poi ancora eletto presidente della provincia di Roma nello stesso giorno in cui Francesco Rutelli venne sconfitto per la corsa al Campidoglio da Gianni Alemanno.
Successo dopo successo, in silenzio e senza mai giungere allo scontro, ha cercato di costruire una rete trasversale all’interno del partito. In uno scontro violento con Renzi datato 2010, l’attuale inquilino di Palazzo Chigi lo accusò di viltà per non essersi candidato alla presidenza della regione Lazio. “Zinga” gli rispose, tramite lettera al Corriere della Sera, dandogli del carrierista «che usa l’antico metodo della denigrazione, conquista spazi e poltrone gettando fango sugli altri». Poteva essere la frizzante premessa di un accordo tra i due all’indomani della sconfitta del rottamatore con Pier Luigi Bersani – «Matteo, tu sei più congeniale per guidare il Paese, io per guidare il partito» – in una mediazione curata da Massimo D’Alema, testa pensante degli eredi di via delle Botteghe Oscure, e abile nel proporre con il solito garbo la modifica dello Statuto di Largo del Nazareno, evocando la separazione del ruolo di segretario da quello di premier. «Tu vai a Chigi, e noi ci teniamo il partito», è stato il ragionamento della falange diessina all’ex sindaco di Firenze. Ma la mediazione dell’ex premier, come conviene alle strategie dalemiane, non portò alcun risultato perché Renzi spinse l’acceleratore non accettando alcuna modifica statutaria e lasciando immutato lo Statuto di veltroniana memoria per le primarie dello scorso 8 dicembre. Nonostante l’episodio, che nel giro del governatore non hanno ancora digerito, Zingaretti ha cercato di mantenere discreti rapporti con l’ex primo cittadino di Firenze. Ma, manco a dirlo, si è sfilato dalla corsa al carro del vincitore in silenzio, apportando in extremis il sostegno al candidato della “ditta” Gianni Cuperlo. Nel frattempo ha esteso la rete di potere oltre i confini della politica, coltivando ottimi rapporti con Luca Cordero di Montezemolo, il risalente rapporto con Andrea Guerra, gli oliati meccanismi di dialogo con i grandi istituti bancari a cominciare da Unicredit, gli alterni destini dei suoi rapporti (complessi) con Caltagirone e quelli coi suoi avversari, come Parnasi che ha costruito il nuovo palazzo della provincia, criticatissimo dalle opposizioni e, soprattutto, da Caltagirone. Senza contare la stima profusa nei suoi confronti da parte di Giorgio Napolitano e dell’ex segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone.
Pezzi importanti di establishment che guardano all’ex ragazzo della Garbatella ce ne sono, insomma, anche se pure in questo campo lui sta attento e tiene le carte scoperte. Fatto sta che, nel caso in questione, un ruolo importante lo starebbe rivestendo Massimiliano Smeriglio, vice governatore del Lazio in quota Sel. L’uomo ombra del governatore, colui che diffonde il verbo zingarettiano all’interno della galassia sindacalista, presenziando ad ogni manifestazione di Susanna Camusso e Maurizio Landini. Per ultima quella organizzata dalla sinistra radicale sul Jobs Act un paio di settimane a Piazza Santi Apostoli. Occasione in cui “Nicola” non si fece vedere, ma il vice governatore Smeriglio non disertò affatto. A ciò si aggiunge un sondaggio che avrebbe fatto tremare il terzo piano di Palazzo Chigi. Un sondaggio misterioso di Swg, commissionato dal capogruppo Pd in Campidoglio Francesco D’Ausilio, secondo cui il governatore, a Roma e nel Lazio, veleggierebbe con un indice di gradimento pari al 54% staccando di dieci il premier-segretario Matteo Renzi. E ancor più interessanti sono i dati disaggregati. Tra gli elettori del Pd, infatti, Zingaretti ha l’84% di gradimento contro il 74 per cento. Dati che vengono confermati in forma riservata agli Stati Generali anche da altri istituti di ricerca e che «alla luce della notorietà e della stima nei confronti di Zingaretti si possono generalizzare». Ma la strategia di Zingaretti, di certo, si intreccerà con quello che succederà in Parlamento, e, soprattutto, con i sommovimenti che si registreranno all’interno delle svariate anime della minoranza Pd.
A Montecitorio più di un parlamentare di fede bersaniana si sbilancia: «La scissione è dietro l’angolo, soprattutto, se Renzi vorrà tornare alle urne». Dunque in uno scenario del genere potrebbe avere gioco facile il predestinato della sinistra italiana. Che potrà contare sull’appeal del fratello Luca che interpreta il commissario più amato d’Italia, e sul sostegno di attori romanissimi come Massimo Ghini. Entro fine anno dovrebbe partorire un think tank di nome “Demo”, che aggregherebbe tutti gli ex Ds e non solo che non hanno cavalcato l’onda renziana. Anche nel mondo dei media starebbe pensando di muoversi: o benedicendo qualche imprenditore amico nel rilancio di qualche storica testata della sinistra italiana, o accompagnando la nascita di nuovi media, tanto che si parla di una web tv. Ma la forza di Zinga resta sempre la Regione Lazio. Proprio qualche giorno fa, infatti, ha presentato un piano di spending review, costituito da un miliardo di tagli agli sprechi nel biennio 2014-2015, sforbiciate alle poltrone dei cda e ai costi della politica. Un messaggio con cui intende diffondere il modello Lazio in tutto lo Stivale, e con cui inizia ad incalzare la leadership di Matteo Renzi: «Ascolti i territori e veda dove ci sono buone pratiche, e colpisca dove ci sono inerzie» ha detto, mentre un mese fa, in piena polemica sul Jobs Act, lui ci teneva a sottolineare su Twitter che il modello Lazio aiuta a trovare il lavoro a chi lo perde o viene licenziato. Il messaggio a Renzi è chiarissimo, e il premier sa bene che l’unico vero rivale è il governatore del Lazio, tanto che si tiene vicini un gruppo di parlamentari e politici romani, considerati i primi, naturali recettori di ogni movimento zingarettiano. Intanto, “Zinga” sta fermo e, come ha imparato dal suo maestro Bettini, attende in riva al fiume. E dal Tevere ai palazzi della politica nazionale sono poche centinaia di metri.
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