Governo
Volete la democrazia diretta? Imparate dalla Svizzera
How democracy dies. Come muore la democrazia. Così titolava un editoriale dell’Economist un paio di settimane fa. In effetti in molte nazioni del mondo la democrazia è in profonda crisi. Pensiamo solo alla Turchia di Erdogan, alle Filippine di Duterte, alla Russia di Putin: democrature sempre più autoritarie. Anche in Europa la forma di governo “meno peggiore” della storia non scoppia di salute: è il caso, ad esempio, dell’Ungheria di Orbán. In tutto il mondo l’antipolitica cresce. Delusione e disincanto, però, non sono riservati soltanto ai partiti: spesso è la democrazia stessa a essere giudicata inadeguata.
Secondo un sondaggio condotto lo scorso ottobre dal Pew Research Center, ben il 29% degli italiani approverebbe l’idea di un “leader forte”, in grado di decidere senza interferenze dal parlamento né dal sistema giudiziario; il 17% sarebbe addirittura favorevole a un governo militare. In Francia il 12% degli intervistati apprezzerebbe un “leader forte”, e il 17% un governo militare; nel Regno Unito, la patria del liberalismo, i fan dell’uomo solo al potere sarebbero il 26%, i sostenitori di un regime militare toccherebbero il 15%.
E se c’è chi sogna governi bonapartisti o plebiscitari, c’è invece chi auspica – a torto o ragione – un maggior coinvolgimento popolare. Si guarda alla democrazia diretta, ad esempio. Che in Italia ha (da poco) persino un ministro dedicato: il pentastellato Riccardo Fraccaro, ufficialmente ministro per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta.
Con democrazia diretta si intende quel sistema che dà a tutti i cittadini la possibilità di decidere su un’ampia gamma di tematiche. Il modello è la Svizzera, dove i referendum sono all’ordine del giorno. Tra le nazioni più ricche del pianeta (il PIL pro capite supera gli 85mila dollari), il piccolo paese alpino gode di una stabilità politica proverbiale, altissimi livelli di libertà, e vive in pace dai tempi della guerra civile del Sonderbund del 1847, durata del resto meno di un mese.
Secondo Amalia Mirante, docente di economia presso la Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana, la Confederazione elvetica «riesce a conciliare bene un’economia liberale con la democrazia diretta grazie alla sua storia e alle sue peculiarità, prima fra tutte la capacità di tenere insieme le diversità». E in effetti in Svizzera di diversità ce ne sono parecchie. La Confederazione, poco più grande di Lombardia e Piemonte messi insieme, è divisa in ventisei cantoni – ognuno con la propria costituzione –, e conta quattro lingue ufficiali nonché due religioni principali.
«Cantoni rurali, di tradizione cattolica – prosegue Mirante – coesistono con città protestanti e più ricche. In una nazione così particolare si sviluppa un percorso di crescita economica solo trovando il giusto equilibrio tra autonomia e solidarietà». Ed è proprio questo, secondo l’economista, un fattore fondamentale nel successo della democrazia diretta svizzera: «il collante deve essere sempre quello della solidarietà fra regioni performanti e regioni più fragili».
Strumento chiave della democrazia diretta svizzera, ovviamente, è il referendum, declinato in diverse modalità. «C’è il referendum obbligatorio, che si tiene su tutte le revisioni costituzionali – spiega a Gli Stati Generali Pascal Mahon, professore di diritto costituzionale all’Università di Neuchâtel –. Questo tipo di referendum richiede una doppia maggioranza, del popolo svizzero e di ogni cantone». Poi c’è il cosiddetto referendum facoltativo. In sostanza, quando il parlamento approva una nuova legge, esiste la possibilità di sottoporla a referendum. Per farlo bisogna raccogliere 50mila firme, o l’accordo di 8 cantoni, entro 100 giorni dall’approvazione della legge. «In pratica ciò significa che ogni legge richiede l’approvazione, implicita o esplicita, del popolo».
Infine c’è lo strumento dell’iniziativa popolare. Che, a condizione di riuscire a raccogliere le firme di 100mila cittadini, permette di richiedere una revisione, totale o parziale, della costituzione. «Ciò significa – spiega Mahon – che una piccola parte della popolazione svizzera fa una proposta a tutto il Paese, chiamandolo a esprimere la propria opinione tramite referendum».
Certo, raccogliere 100mila firme non è uno scherzo, specie in un paese di 8 milioni di abitanti. Non a caso «spesso sono dei partiti politici a lanciare queste proposte, o comunque organizzazioni che hanno già una base – nota Véronique Boillet, docente del Centro di diritto pubblico dell’Università di Losanna –. C’è bisogno di mezzi importanti per riuscire a raccogliere un tale numero di firme». Tuttavia, sottolinea Boillet, «l’iniziativa popolare è senza dubbio molto importante dal punto di vista della democrazia diretta, e in effetti è uno strumento molto utilizzato. Sensibilizza parecchio i politici riguardo le tematiche importanti per la società civile. Certo, non sempre porta a dei risultati positivi».
A questo proposito Giuliano Bonoli, professore di politiche sociali presso l’Università di Losanna, sottolinea la necessità, in una democrazia diretta, di «una forte responsabilità da parte dei principali attori politici. Bisogna evitare di promettere cose irrealizzabili». Secondo lo studioso, è da evitare anche «l’utilizzo della democrazia diretta come strumento di marketing politico. Negli ultimi anni, in Svizzera, abbiamo assistito proprio a questo, a partiti politici in cerca di notorietà che hanno sfruttato la visibilità che potevano dare certi temi “caldi”. Pensiamo ad esempio al referendum sulla proibizione di costruire minareti».
Luci e ombre, insomma, di un sistema che, secondo gli esperti sentiti da Gli Stati Generali, sarebbe comunque molto difficile – forse impossibile – riprodurre altrove, ad esempio in Italia. «La Svizzera non è esportabile – dichiara Gianfranco Pasquino, professore della John Hopkins University SAIS Europe –, e soprattutto non sono esportabili i suoi elementi di democrazia diretta. Un modello come quello svizzero richiede la storia svizzera». Cauto anche Bonoli. «Un modello di questo tipo richiede consenso, e un sistema politico poco conflittuale. Altrimenti la governabilità viene messa seriamente a rischio. Credo che in Italia i governi eletti avrebbero ancora più difficoltà a implementare delle riforme».
Del resto, spiega Pasquino, l’Italia non raduna le condizioni dei contesti in cui la democrazia diretta è stata applicata nella storia. «Ciò che sappiamo della democrazia diretta è che è stata attuata in luoghi geograficamente ristretti: si pensi ad Atene o alla Comune di Parigi. Inoltre si trattava di persone che condividevano lo stesso stato sociale, lo stesso reddito, lo stesso livello di istruzione. Oggi non c’è nessun luogo del genere, piccolo e in cui cittadini siano uguali fra loro».
Non è uniforme neppure l’interesse dei cittadini per la politica, sottolinea lo studioso. «In molti non prendono parte alla politica in alcun modo. Una decisione presa, ad esempio, dal 52% dei cittadini, di cui la metà non conosce a sufficienza l’argomento su cui deve esprimersi, è una decisione che è soggetta a diventare molto controversa. La democrazia non consiste nel prendere le decisioni, bensì nel costruirle. Talvolta in Svizzera la democrazia diretta è una sorta di accelerazione di processi che non si sono ancora compiuti, non solo nella coscienza dei cittadini, ma nel dibattito pubblico».
Infine, più di una partecipazione diretta al potere, forse per i cittadini conta di più l’economia. Infatti il sondaggio citato all’inizio dell’articolo rilevava il peso di una buona performance economica nella soddisfazione per il sistema democratico del proprio paese: sette cittadini su dieci ne erano soddisfatti in Svezia, Paesi Bassi e Germania; tutti paesi con un’economia ben più vitale di quella italiana (con tassi di crescita rispettivamente del 2,4%, 3,1% e 2,5% nel 2017 secondo i dati dell’IMF), nonché tassi di disoccupazione più bassi (parliamo del 6,6%, 5% e 3,7% contro l’11% nostrano) e diseguaglianze socioeconomiche meno marcate.
Forse, anziché puntare su sistemi democratici alternativi, per rivitalizzare le democrazie in difficoltà sarebbe auspicabile una maggior capacità di rispondere ai bisogni dei cittadini. E quindi, di partiti politici più efficaci nella loro azione. «La democrazia si regge quando gli uomini e le donne di un paese sono in grado di parlarsi fra loro – nota Pasquino – ed è per questo che i partiti sono essenziali. In alcuni casi però, i partiti sono diventati dei gusci vuoti, e quando ciò accade la democrazia ne soffre».
Foto in copertina: Pixabay
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