Governo

Un anno di Renzi dimostra che fare si può: il problema restano il come e il cosa

23 Febbraio 2015

Appena ieri il bambino renziano ha compiuto un anno. Un anno fa, dopo un rapidissimo precipitare degli eventi, dopo che Enrico doveva stare sereno, Matteo Renzi sottoponeva – o imponeva, i punti di vista sono sempre almeno due – l’idea della staffetta e della sua ascesa a Palazzo Chigi al partito democratico, ne otteneva un plebiscito, spingeva Letta a immediate dimissioni, otteneva l’incarico da Giorgio Napolitano e formava istantaneamente il governo più giovane e ad alta componente femminile della storia repubblicana. Tutto d’un fiato, come lo è stato, poi, quest’anno vissuto sempre al limite della soglia anaerobica dal presidente del Consiglio e segretario del partito democratico, e dal suo entourage. Un anno iniziato di slancio, con la forza dei quarant’anni e la spregiudicatezza che chi conosce bene il politico Renzi non ha mai messo in dubbio come ingrediente chiave. Un anno vissuto con una consapevolezza, da parte di Renzi: non avrebbe potuto tirare a campare, non avrebbe potuto vivacchiare come molti, troppi suoi predecessori, pena la perdita di consenso e la fine veloce, nel falò delle vanità, dell’alta ambizione dichiarata e rivendicata dando il benservito a Letta e al suo governo. Importante era fare delle cose, naturalmente, e altrettanto, almeno altrettanto importante, era dirle al popolo: una, due, venti volte al giorno.

È in forza di questa coscienza, della necessità di fare cose per non sparire nel mare indistinto del grigiore della politica, che si capisce forse meglio cosa è stato quest’anno di renzismo di governo. Un anno pieno di cose, promesse, decreti, parole, slogan, vittorie elettorali, cambi di rotta repentini. Un anno pieno di politica. Tornata indiscutibilmente protagonista, con Renzi e il suo governo. Con le riforme istituzionali vicine al porto di arrivo; la buona scuola che ciclicamente rispunta e adesso dovrebbe vedere la luce; gli ottanta euro che fanno da sfondo ad ogni discussione; il jobs act portato a casa a spinte e calci. “Fatto, fatto, fatto” sembra dire Renzi tra un tweet e l’altro. Certo, non mancano le cose non fatte, quelle accantonate e lasciate cadere in un cono d’ombra: la spending review, commissionata e poi finita nel cassetto; gli interventi sulla macchina dello stato, tanto delicati da trovare sempre la strada del rinvio; le liberalizzazioni, che riguardano sempre i lavoratori dipendenti mentre risparmiano sempre lobby e professioni.

Ma per fare una critica seria di quest’anno di Renzi, prima che guardare al bicchiere mezzo vuoto delle cose non fatte, è forse utile, o sufficiente, guardare a quello mezzo pieno delle cose fatte. Perché l’attivismo e la capacità di concretizzare del politico Renzi non sono in discussione. Non possono esserlo, dopo decenni di politica parolaia. Quel che si può e si deve osservare, invece, è la solidità del processo, la chiarezza degli obiettivi, la solidità del rapporto con gli interessi rappresentati: la capacità, insomma, di fare stare insieme l’attivismo e la concretezza con l’equilibrio e la solidità. La velocità di esecuzione con la buona mira. Il poter dire “fatto”, con l’onestà di chi può dire “fatto bene”. Il saper coniugare una selezione di squadra in grado di garantire compattezza, con la necessità di avere, attorno a sé, la dialettica competente che serve per migliorare i processi e i risultati. La buona comunicazione con la consapevolezza che tanti mezzi di informazione accondiscendenti in Italia non sono una novità né, tantomeno, un merito.

Perché, se è vero che il governo Renzi ha fatto molte cose, dimostrando che fare si può, altrettanto vero, pare, è che sia nel campo delle riforme istituzionali che in quelle economiche la fretta di fare, e di farsi dire di sì, sembra aver avuto la priorità rispetto alla costruzione di un disegno organico e di lungo periodo, che è poi quello che all’Italia manca da qualche decennio. La prossima sfida di Renzi, all’inizio del secondo anno di governo, è in fondo questa: non tanto quella di capire come relazionarsi alle minoranze o agli avversari (peraltro non in grado di impensierirlo davvero, per ora), ai giornalisti di vecchi e nuovi media, quanto quella di dimostrare che davvero si pensa al futuro del paese e non alle prossime elezioni o – peggio – al prossimo sondaggio. Questa sarebbe davvero la volta buona: e l’onore della prova, naturalmente, spetta al premier.

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