Governo
Ugo Pagano spiega perché il declino economico italiano non è inevitabile
Il domani può essere diverso dall’oggi e che la direzione del cambiamento può essere indirizzata da principi e strumenti informati dalla giustizia sociale e ambientale, dalla partecipazione pubblica e dall’innovazione tecnologica ed economica. Una ricostruzione dei processi decisionali, dei contesti territoriali e organizzativi, delle innovazioni istituzionali in Italia e in Europa, che racconti gli effetti virtuosi, senza celare le resistenze e i fallimenti.
Pubblichiamo un estratto dal saggio du Ugo Pagano contenuto nel volume collettaneo L’economia, la politica, i luoghi. Scritti per Fabrizio Barca (Donzelli editore) a cura di Filippo Barbera e Patrizia Luongo. Ringraziamo l’editore per la disponibilità
La Banca d’Italia, con una ricerca coordinata da Fabrizio Barca, allora vicedirettore del suo Ufficio studi, mise in luce come il settore privato del capitalismo italiano fosse caratterizzato dal controllo familiare e da una assenza di strutture di governo manageriali (Banca d’Italia 1994). Adeguate riforme del governo societario avrebbero, quindi, dovuto accompagnare le privatizzazioni.
Era condiviso fra i partecipanti alla ricerca il timore che le privatizzazioni avrebbero potuto contribuire a ridurre il numero, già esiguo, di grandi imprese italiane. Si notava come, nonostante la vivacità e la numerosità delle piccole imprese, il sistema italiano fosse incapace di generare grandi imprese manageriali nel settore privato. Molti partecipanti al dibattito condividevano anche l’idea che fossero sostanzialmente disponibili due modelli canonici, riconducibili a quelli prevalenti in Germania e negli Stati Uniti, che permettevano nei paesi a capitalismo avanzato la transizione dalla gestione familiare a quella manageriale delle imprese. […]
Nonostante il vivace dibattito che, grazie soprattutto a Fabrizio Barca (1996), si sviluppò in Italia, anche le privatizzazioni finirono con l’essere un’altra occasione sprecata per riformare il capitalismo italiano. La riforma Draghi del 2003 permise alle imprese di scegliere fra lo status quo, il sistema con doppio Cda tedesco e quello con singolo Cda di tipo americano. La riforma lasciò il modello di capitalismo italiano sostanzialmente inalterato. Lo status quo prevalse come sarebbe successo in Germania e negli Stati Uniti se non fossero stati imposti dei precisi vincoli legislativi e la riforma del governo societario fosse stata demandata a scelte individuali spontanee dei singoli imprenditori.
Negli anni novanta il modello tedesco e la stessa Germania, che veniva addirittura vista da alcuni come il grande malato dell’Europa, vivevano un momento difficile. D’altra parte, l’attrazione politica e intellettuale per il modello americano trovava dei limiti stringenti nel fatto che l’Italia, caratterizzata anche essa da imprese possedute da famiglie e da sindacati forti era molto più simile alla Germania che agli Stati Uniti. Questa situazione contribuì al nuovo compromesso senza riforme che si ebbe di fatto con la legge Draghi.
La mancata riforma del capitalismo privato e la privatizzazione delle imprese pubbliche hanno finito con il differenziare fortemente le imprese in cui lo Stato ha mantenuto una quota azionaria che gli ha permesso di scegliere il management e le altre in cui il controllo è passato ai privati. Nel primo caso la combinazione fra scelta del management da parte dello Stato e controllo esercitato dal mercato azionario ha funzionato in modo soddisfacente e le imprese che hanno adottato questo sistema (Eni, Enel, Fincantieri, Leonardo ecc.) hanno raggiunto dei buoni risultati.
Nel secondo caso, il passaggio delle imprese privatizzate al controllo familiare (Telecom, Ilva e Autostrade ecc.) ha riconfermato tutti i limiti del sistema di governo delle grandi imprese private italiane.
Abbiamo così ottenuto un vero paradosso delle privatizzazioni: fatte per superare l’inefficienza dell’impresa pubblica, hanno confermato tutti i limiti della grande impresa privata italiana. La radice di questo paradosso risiede nel fatto che se non si crea un modello alternativo di capitalismo nel settore privato, l’unico modello per fare grande impresa in Italia resta l’impresa pubblica specialmente quando, in seguito alla trasformazione da ente pubblico a società per azioni, ha riguadagnato la sua autonomia. L’Italia non ha creato in questo periodo nuove grandi imprese e ha perso alcune di quelle preesistenti facendo mancare quella complementarità fra piccole e medie imprese private e grandi imprese (molto spesso pubbliche) che aveva contribuito allo sviluppo nel primo dopoguerra (Pagano 2019).
Il Forum Disuguaglianze Diversità, co-coordinato da Fabrizio Barca, propone una scelta sistemica che tenga conto della maggiore affinità del sistema italiano con quello tedesco rispetto a quello americano. Essa va fatta cooperando con le parti sociali e si dovrebbe tradurre in norme e in processi che diano una voce ai proprietari, ai lavoratori e ai rap- presentanti dei territori in cui esse si insediano. Alcune imprese italiane potrebbero così acquisire delle caratteristiche manageriali che le mettano al riparo dai limiti di un’ottica familiare e da destabilizzanti cambiamenti generazionali. Si contribuirebbe così a superare quel nanismo delle imprese italiane che è stato dagli anni novanta una delle cause del nostro declino.
Secondo le proposte del Forum, le imprese controllate dallo Stato non vanno più viste come una anomalia di cui sbarazzarsi ma come una forma di capitalismo che può dare un notevole contributo alla economia italiana, soprattutto colmando il suo deficit di grandi imprese e di gestioni manageriali. Le imprese controllate dallo Stato potrebbero anche meglio contribuire allo sviluppo del nostro paese se esse elaborassero delle strategie comuni. Alcune joint ventures fra le imprese controllate dallo Stato potrebbero anche servire a creare delle nuove grandi imprese nei settori più dinamici, quali quelli della transizione energetica e dei nuovi tipi di mobilità.
Siamo di nuovo di fronte a sfide difficili e a occasioni da cogliere. Non bisogna perdere un ottimismo della volontà che è giustificato anche da qualche ragione. Il declino dell’Itala non è affatto inevitabile. Dipende in gran parte dal suo modello di capitalismo e questo è il frutto di un insieme di eventi storici. Non è certamente un connotato inevitabile della italianità.
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