Governo

Tre osservazioni sulle Regionali: laboratori, esterofilia e vecchi aggettivi

29 Maggio 2015

Siamo alla vigilia di elezioni regionali ritenute da più parti cruciali. Al di là della concreta posta in gioco (la guida di sette Regioni italiane, tra cui “giganti” come Campania, Puglia, Toscana e Veneto) è il valore simbolico di tali consultazioni ad aver presto preso il sopravvento. Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, tramortito come un pugile sul ring dal flop delle Europee 2014 (efficace immagine che prendo in prestito dal giornalista del Fatto Quotidiano Andrea Scanzi) cerca il rilancio. La strategia si basa come al solito sui vecchi ed inossidabili cavalli di battaglia, a partire dalla lotta contro la corruzione e il malaffare associati alla “vecchia” classe politica. Il caso “impresentabili” contribuisce a gettare olio sul fuoco. Il Pd di Matteo Renzi sa, anche se non lo dice apertamente, di non poter replicare il limpido trionfo dell’anno scorso. È passata troppa acqua sotto i ponti da quando il Rottamatore di Firenze sembrava essersi messo in tasca con nonchalance il partito e l’intero Paese. Troppo lacerante la battaglia con l’opposizione interna, troppo divisive le riforme istituzionali messe in campo, troppo serrato il ritmo della comunicazione per sottrarsi ad un inevitabile rallentamento e logoramento. Renzi sa di poter uscire dal labirinto delle Regionali bene o benino, al netto dell’improbabilità di un rovescio catastrofico. Questo non gli assicurerà però né l’automatica compattezza del partito (screditato a livello locale dalla commistione con ras delle tessere che poco hanno a che spartire con il verbo renziano della rottamazione) né il proseguimento senza inciampi dell’attività di governo (c’è ancora la riforma del Senato da portare a casa). Circolano voci di possibili rimpasti, ma dubito che un rimescolamento della compagine ministeriale sarebbe sufficiente per ridare slancio ad una macchina che sembra sul punto di ingolfarsi.

I pallidi alleati di governo non stanno di certo a guardare: tralasciando l’ormai moribonda Scelta Civica, è la neonata formazione “Area Popolare” a cercare la riscossa. Una ripartenza tanto agognata da coniare l’hashtag #ricominciamoda7 e da sognare la prossima nascita di un vero e proprio Partito Popolare in grado di resistere senza compromissioni al ciclone Renzi e alle sirene del lepenismo in salsa nostrana incarnato da Salvini. Sullo sfondo, è sempre Matteo Salvini a dare le carte: cinicamente a cavallo dell’onda lunga mediatica scatenata da recenti casi di cronaca, ulteriormente rafforzato nel carisma da ottuse manifestazioni di dissenso che hanno reso i suoi comizi testimonianze di un “senso comune” troppo spesso derubricato a facile qualunquismo. Salvini non rimesta nel torbido, ma si fa piuttosto megafono di categorie di interpretazione indigeste ai palati più sensibili, ma spesso in linea con la visione sommaria dell’uomo della strada. È in questa prospettiva che Salvini sa di avere tra le mani una vittoria virtuale, a prescindere dai risultati che usciranno dalle urne: mattatore dell’arena televisiva ed internettiana quanto e quasi più del premier, agevolatore di un mini-processo di ricompattazione del centrodestra in Liguria (dove il suo luogotenente Rixi ha fatto un passo indietro in favore del delfino berlusconiano Toti), serenamente sulle spalle di un nobile leghista vecchio stampo come Luca Zaia in Veneto, galvanizzato dal ruolo di guastatore tramite il fumantino no-euro Borghi Aquilini in Toscana.  Tralasciando i tristi contorcimenti finali di Forza Italia (che deve elaborare sia l’abbandono del signore delle tessere pugliese Raffaele Fitto sia il vuoto politico in cui è caduta la proposta di Berlusconi di convergere in un fantomatico Partito Repubblicano all’americana), è all’altro estremo che si segnalano i movimenti più interessanti. Trovato finalmente il fegato di abbandonare il Pd sbattendo la porta (a differenza di altri malpancisti cronici quale Stefano Fassina), l’ex sfidante/sodale di Renzi Pippo Civati si appresta a dare vita al “Podemos” italico: “E’ possibile”. Le prove generali del nuovo movimento, che verrà lanciato con tutta probabilità in estate, si svolgono in Liguria: a dare battaglia da sinistra alla renziana Paita sarà infatti il civatiano Luca Pastorino, benedetto dal deluso ex Pd Sergio Cofferati. La riscossa anti-Renzi della sinistra italiana rischia però, come spesso accade, di provocare l’effetto contrario consegnando la Regione dell’eterno Burlando al centrodestra. Certificando, apparentemente, la riscossa di un fronte comune contro il presunto “Partito della Nazione” renziano.

Qualche osservazione alla spicciolata, senza la presunzione di aggiungere nulla di nuovo all’infuocato dibattito pre-elettorale. In primis, salta all’occhio la rozzezza di certi schemi interpretativi, rimbalzati dai fondi dei quotidiani alle vivaci diatribe sui social media. Possibile che una regione di poco più di un milione e mezzo di abitanti (peraltro i più anziani della Penisola) venga considerata un laboratorio politico con ricadute nazionali? Non me ne vogliano gli amici liguri, ma se aveva un senso seguire con attenzione le manovre politiche in Sicilia o tenere d’occhio le dinamiche elettorali in Lombardia (vincitrice dell’abusata etichetta “Ohio d’Italia”), appare meno giustificato conferire una valenza sproporzionata al derby della Lanterna Paita-Toti. Ciononostante, l’attenzione di osservatori e semplici appassionati è stata catalizzata in modo spesso isterico dalla campagna elettorale ligure: Renzi ci va o no? Quanto prende Pastorino? Ma Toti ce la fa? Al di là delle inevitabili speculazioni politiche e degli innocui divertissement degli inguaribili politologi, resta un dubbio: alla luce dell’anemica partecipazione registrata alle ultime consultazioni regionali in un’area ribollente di spirito civico quale l’Emilia Romagna, non sarebbe stato più saggio sfrondare questo appuntamento dalle solite baruffe da campagna elettorale permanente? Lasciare che i candidati locali si misurassero sulle questioni del territorio e interloquissero serenamente con le comunità regionali avrebbe impoverito le pagine politiche dei grandi quotidiani, ma forse contribuito a riguadagnare alla causa della democrazia quell’ampio settore della cittadinanza che troppo semplicisticamente viene bollato come “partito dell’astensione”. Chi non ha niente da dire e nulla da rappresentare non si connota come un partito, ma al massimo si presenta come un aggregato confuso e sfilacciato refrattario ad ogni tipo di mobilitazione, anche solo episodica. Una seria riflessione su questo punto, più che sull’eterno ritorno della “sinistra masochista” e del “bertinottismo 2.0” avrebbe privato di pepe il dibattito, ma rivitalizzato la nostra stanca democrazia.

In secondo luogo, mi permetto di invocare una provocatoria moratoria sull’importazione di modelli stranieri. Permettiamoci a volte un sano nazionalismo, difendiamo il “made in Italy” non solo nel settore eno-gastronomico. La sinistra italiana non renziana ha acquisito, purtroppo, un brutto vizio: gioire per le vittorie degli altri. Lo abbiamo visto con Tsipras ad inizio anno, si è ripetuto ora con Podemos. L’esultanza del momento lascia paradossalmente le urne vuote e rischia di compromettere progetti che si reggono su piedi d’argilla. In più, crea spesso pericolosi cortocircuiti: un certo milieu culturale che aveva avversato per due decenni la personalizzazione della politica di marca berlusconiana non ha esitato a dare la propria benedizione ad una lista che aveva nel simbolo il nome del neo-eletto premier greco. Vicenda, come tutti sappiamo, conclusasi un anno dopo nell’esplodere delle beghe interne per una preziosa seggiola a Strasburgo. Dall’altro lato della barricata, il pervicace sogno del Cavaliere di unificare sotto il suo scettro le sterminate praterie del “moderatismo” italiano (etichetta scialba buona per tutte le stagioni) mostra ormai la corda: tirare per la giacchetta il povero George W. Bush perché venga in Italia ad insegnarci come dare vita ad un Grand Old Party nostrano rischia di essere non solo velleitario, ma anche ridicolo. Allo stesso modo, non sarà l’innamoramento per il conservatore britannico Cameron a conferire spessore elettorale ad un rampante ex democristiano di Maglie (stiamo parlando di Fitto). Inseguire parole d’ordine e tendenze straniere può servire a svecchiare il dibattito nostrano ed a europeizzare la nostra bolsa politica. Intestarsi proditoriamente un certo brand non denota solo inconcludente esterofilia politica, ma anche incapacità di elaborare schemi e proposte proprie.

In terza battuta, un appunto su “Area Popolare”. Un prodotto per veri intenditori, la cui nascita non ha sicuramente dominato le prime pagine dei giornali. Si tratta del cartello formato da Ncd ed Udc, in ottemperanza a quella regola non scritta secondo la quale appiccicare due sigle insieme porta automaticamente alla somma aritmetica dei loro voti. Mai regola è stata più volte smentita nella storia politica italiana, a partire dalla sfortunata unione socialisti-socialdemocratici della Prima Repubblica (1966-1969) in poi. Se è vero che l’aggregato è sopravvissuto alla prova di fuoco delle Europee, è innegabile che fare la stampella di centro-destra ad un governo di centro-sinistra potrebbe alla lunga confondere ed intiepidire l’elettorato. Lasciando sullo sfondo i rumours di un prossimo divorzio dal Pd dopo l’estate, resta un dubbio: a che pro lanciare un nuovo progetto politico sbandierando l’aggettivo “Popolare”? E’ vero: in Europa domina il Partito Popolare Europeo, con le sue varie propaggini nazionali. La signora Merkel, zarina dell’Unione, viene da un partito con un forte pedigree cristiano-democratico. Lo spagnolo Rajoy ha alle spalle un Partito Popolare che ha governato il paese per anni. Ciononostante, assistiamo oltre la frontiera con l’Austria al progressivo ed inarrestabile tramonto di un Partito Popolare da sempre al governo (seppure in una Grande Coalizione), morso ai fianchi da una nuova forza politica turbo-liberale ed europeista, la Nuova Austria. Ferma restando la nobiltà di una tradizione politica che ha dato all’Europa i suoi padri fondatori e all’Italia De Gasperi, che cosa significa nel 2015 definirsi “popolari”? Allo stesso modo: il discrimine è ancora quello con i “socialisti”? Mettere in discussione le etichette potrebbe essere il primo passo per affrontare con le armi giuste le sfide politiche del nostro tempo. Se l’obiettivo è quello di risvegliare qualche aficionado dello Scudo Crociato, il percorso non può che essere limitato e di corto respiro.

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