Costume

Trasparenza e U-Boot

16 Dicembre 2020

 

L’organizzazione Trasparency International posiziona l’Italia al cinquantaquattresimo posto, su centottanta paesi analizzati, per il livello di corruzione nella pubblica amministrazione

( www.trasparency.org).

Su una scala da zero a cento in cui lo zero indica la corruzione massima e cento una correttezza quasi assoluta, l’Italia ha un punteggio di cinquanta.

Impietoso l’elenco dei paesi che ci precedono, che non sono solo i tradizionali paesi ad alta coscienza civile.

In compagnia della Nuova Zelanda, Danimarca e Finlandia, che occupano il podio, troviamo anche un insospettabile Singapore (sesto), l’Estonia (ventunesima), il Buthan e Cile (ventiseiesimi a pari merito) e   financo il famigerato Ruanda (quarantottesimo con un punteggio di 55).

Qualcuno potrà obiettare sulla validità di questi dati e spostare il nostro paese più in alto o più in basso nella classifica ritenendo inattendibili e soggettive le valutazioni di questa organizzazione.

Ma quello che mi piace di questa organizzazione è il nome, con il quale manifesta chiaramente la sua visione:

T R A S P A R E N C Y.

Un nome perfetto. Un nome che con un solo lemma dice tutto. Perché la corruzione attecchisce, prolifera e cresce come una tenia dove i cittadini ignorano le procedure e i percorsi decisionali, ignorano quali siano i veri centri di potere, ignorano semplicemente come funziona la macchina normativa e amministrativa.

Pochi sanno poco e di quel poco che sanno non parlano, tenendo all’oscuro gli altri.

La corruzione non si manifesta solo con i comportamenti illegali rispetto alle procedure note, manipolando un bando o dando una mazzetta a un funzionario.

Vi è una corruzione latente che favorisce pochi a discapito di molti, che droga le logiche della concorrenza leale, che crea bisogni inesistenti e induce a cambiamenti inutili senza che nessuno ne sappia l’origine, la causa, da chi e perché siano stati decisi.

Senza che i cittadini ne siano informati e quindi possano essere attori consapevoli delle loro azioni.

Molti di noi pensano che le regole del gioco le stabiliscano le leggi emanate dal parlamento, democraticamente eletto dai cittadini tutti, chi più chi meno, rappresentati.

Ma pochi sanno invece che ci sono, a latere, enti e organizzazioni, spesso private, che stabiliscono a priori quelle regole del gioco a cui poi le leggi fanno riferimento.

Ci sono degli U-Boot che solcano i mari dell’economia, del mercato, delle regole, agendo nascosti dai riflettori del dibattito e della lotta politica.

Tra queste organizzazioni c’è, ad esempio, l’UNI, l’Istituto di Normazione Italiano che, collegato alle sorelle Europee, “elabora e pubblica norme tecniche volontarie, le norme UNI, in tutti i settori industriali, commerciali e del terziario” (1)

I soci possono essere tutti, imprese, cittadini, associazioni, professionisti e così via.

Le forme di iscrizione sono diverse, secondo le caratteristiche dell’iscritto, ma comunque onerose e valide per una delle circa 1000 commissioni tecniche in cui è divisa la struttura organizzativa dell’associazione.

E c’è una commissione per tutto come ad esempio per definire la costruzione di una bicicletta, il funzionamento di una doccia, la lunghezza delle stanghette dei vostri occhiali, o quali attenzioni igieniche debba seguire chi vi prepara un panino fino alle caratteristiche di infiammabilità del vostro materasso.

Ogni norma, definendo le caratteristiche funzionali di un prodotto, ne determina anche il ciclo di vita, la durata e l’obsolescenza.

E qui entra in gioco la trasparenza. Perché, anche se UNI è un’associazione, a parole, aperta e disponibile, attenta alla sostenibilità ambientale e alla responsabilità delle imprese, è allo stesso tempo un’associazione “fantasma” per la maggior parte dei cittadini e delle associazioni ambientali, di consumatori, dei lavoratori, del terzo settore o non governative.

Ed è invece assolutamente nota e frequentata da imprese, associazioni di professionisti, commercianti, prestatori di servizi.

Che partecipano attivamente alla definizione delle norme, condizionando la vita e la morte di ogni prodotto, determinando la necessità di una procedura professionale o definendo le caratteristiche di una specifica attività commerciale.

Fanno il loro lavoro, e lo fanno secondo i propri specifici interessi, che spesso confliggono con quelli dei consumatori o dei cittadini.

L’introduzione di una nuova norma ci può obbligare a sostituire un prodotto di cui è definita a priori l’obsolescenza senza poter verificare se è ancora efficiente, a ottemperare a una verifica burocratica avvalendoci di un professionista, o a limitarci la possibilità di acquisto di un prodotto dove più conveniente.

Norme probabilmente assolutamente legittime ma di cui noi non conosciamo l’origine e che vengono stabilite da alcuni portatori di interessi escludendone, per ignoranza, altri.

La mancanza di pubblicità, e quindi la sua invisibilità, fanno si che UNI condizioni la nostra vita senza che noi se ne sia al corrente.

Questa ignoranza può vanificare, ad esempio, molte delle battaglie ambientali a cui ci dedichiamo con le nostre piccole azioni quotidiane e su cui spendiamo molte delle nostre energie.

Possiamo anche raccogliere tutti i tappi di plastica del mondo ma non ottenere nessun risultato quando una norma Uni, decisa in due sedute di una commissione di tecnici delle imprese produttrici, decide di rendere obsoleti, per fare un esempio reale, milioni di rilevatori di fumo in plastica.

Si butta tutto definendo un’età limite del prodotto, senza che se ne sia dimostrata l’inefficienza, inducendo forzatamente una nuova richiesta a favore delle imprese produttrici che hanno probabilmente le loro ragioni, ma che essendo praticamente le uniche attrici della decisione lasciano spazio a dietrologie e perplessità.

Una semplice norma, un semplice codicillo, una virgola al posto giusto, condannano un oggetto alla discarica o indicano come indispensabili delle caratteristiche tecniche assolutamente superflue se non per gli interessi delle imprese che li producono.

Ma se i cittadini vengono (volutamente?) tenuti all’oscuro di quali siano i reali centri decisionali non saranno mai in grado di intervenire e partecipare alla definizione delle regole che indirizzano la gestione del bene comune.

E’ una questione di trasparenza che fa assolutamente rima con conoscenza.

 

(1)    http://uni.com/index.php?option=com_content&view=article&id=141&Itemid=2422

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