Governo
Sul referendum costituzionale Confindustria veste i panni di Cassandra
Il 1° Luglio scorso il Centro Studi di Confindustria ha reso pubblico un documento intitolato La risalita modesta e i rischi di instabilità, il cui scopo è non solo scattare una fotografia della situazione economica italiana ma soprattutto quello di tracciare le possibili conseguenze sulla crescita a seguito di alcuni eventi di rilevanza geopolitica. La stesura del documento è a cura di un team guidato da Luca Paolazzi, bocconiano e già giornalista del Sole 24 Ore e dal 2007 direttore del Centro Studi di via dell’Astronomia.
La tesi esposta in partenza è sostanzialmente la seguente: per anni la nostra economia ha subito una profonda contrazione, fino a quando alcuni sopraggiunti fattori – vengono citati: politiche monetaria accomodanti, bassi prezzi delle materie prime, euro debole ma anche le riforme approvata a sostegno della crescita – hanno permesso di invertire, seppur debolmente, la rotta. Sempre per usare una metafora nautica, secondo Confindustria l’Italia appare come una “piccola nave in un mare in gran tempesta”. La burrasca è innanzitutto internazionale: il documento dà ampio spazio agli effetti negativi della recentissima Brexit, il cui impatto viene stimato in un -0,1% di PIL nel 2016 e -0,5% nel 2017. Anche le recenti elezioni spagnole vengono inserite nella discussione, a dimostrazione del fatto che l’instabilità politica è sempre una minaccia alle riforme e di conseguenza allo sviluppo.
Sugli effetti dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si potrebbe discutere a lungo, anche perché ancora ignoti sono tempi e modalità con cui questo processo dovrebbe verificarsi; al riguardo uno dei documenti più significativi pubblicati a seguito del referendum britannico è senza dubbio quello elaborato dall’agenzia di rating Standard & Poor’s nel quale viene introdotto il Brexit sensitivity index (BSI), un indice che intende rappresentare il possibile impatto economico della consultazione sui singoli paesi europei. Nel ranking stilato da S&P il nostro paese risulta solo penultimo davanti all’Austria con un BSI di 0.4, e con una esposizione export in termini di PIL pari solamente all’1,6%. Ovviamente nel report si precisa che il BSI non include le reazioni politiche e dei mercati, ma si limita a delineare con la massima precisione possibile le relazioni finanziarie ed economiche tra il Regno Unito e gli altri paesi europei.
Ciò che tuttavia colpisce del documento del Centro Studi non è tanto l’effetto stimato – e probabilmente sopravvalutato – della Brexit quanto il riquadro nel quale ci si imbatte poche pagine dopo nel quale si illustrano le conseguenze economiche a seguito di un possibile “no” al referendum costituzionale del prossimo ottobre. Nel gennaio scorso il premier, intervistato da Repubblica.tv, aveva dichiarato che in caso di sconfitta del “sì” avrebbe lasciato la politica ma, Cameron docet, i referendum rischiano di trasformarsi in pericolose bucce di banana. Il Sole 24 Ore osserva in un recente editoriale che “il rischio della sconfitta trasforma l’Italia nella prossima mina vagante e su Renzi ricade il peso di un destino non più solo nazionale (…) Non è più il tempo in cui Renzi può minacciare l’abbandono, lasciare il Governo senza che si sappia cosa accadrà il giorno dopo”.
Ma tant’è: ormai Confindustria è schierata per il “sì”, senza se e senza ma, e all’uopo veste i panni della Cassandra, profetizzando scenari da incubo qualora il popolo bocci le riforme proposte dal Governo. E lo fa con una precisione acuta, delineando cinque stilettate che il “no” arrecherebbe al paziente italiano: aumento dello spread, difficoltà a chiudere le aste dei titoli sovrani, fuga dei capitali esteri e italiani, crollo della fiducia dei consumatori, svalutazione dell’euro. Una crisi paragonata in tutto e per tutto a quella del 2011, quando lo spread toccò quasi quota 600 con le conseguenze politiche che tutti ben conosciamo. Tutto questo si dovrebbe tradurre in una contrazione del PIL nel triennio 2017-2019 dell’-1,7% contro +2,3% previsto (quindi -4%), -12,1% negli investimenti, -589€ nel PIL/procapite e +430mila poveri in più nel 2019. Come si legge nel rapporto con la vittoria del no sarebbe “inevitabile una nuova recessione per l’economia italiana”.
Non è chiaro su quale metodo scientifico si basino le previsioni di viale dell’Astronomia, e su questo i social hanno non hanno risparmiato il sarcasmo: il più tagliente è forse il tweet di Riccardo Puglisi, professore di Economia all’Università di Pavia, che si chiede dove sia possibile trovare la parte econometrica dello studio sugli effetti del no al referendum costituzionale. Se un colosso come S&P è prudente nel valutare l’esito di un referendum già svoltosi, altrettanto non fa Confindustria nei confronti di un evento che dovrà ancora verificarsi, e le cui conseguenza politiche sono ancora tutte da valutare (Renzi si dimetterà? Mattarella scioglierà le Camere? Nel frattempo un asteroide colpirà la terra? Boh!).
Non solo: il referendum britannico chiedeva ai cittadini di esprimersi sull’opportunità di permanere all’interno di una unione il cui scopo precipuo è quello economico ancor prima che politico, ponendo in capo agli elettori la responsabilità circa le possibili conseguenze – positive o negative – di tale esito. Ci si chiede dunque nel caso del referendum italiano quale mastodontico peso possa avere l’abolizione (o meno) del bicameralismo perfetto e degli altri contenuti del referendum sull’andamento dello sviluppo economico italiano o addirittura internazionale.
L’unica verità che si intravede nelle slide di Confindustria è quella – amara – di una comunicazione che paventa nuove probabili crisi, sfruttando l’onda di situazioni politiche solo formalmente analoghe (Brexit ed elezioni spagnole) e col solo fine di condizionare l’esito di un voto che, data l’importanza politica che riveste, dovrebbe invece essere affrontato con la massima serenità.
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