Governo

Si svuotano gli stadi per salvaguardare gli studi

13 Gennaio 2022

Da due anni a questa parte l’ovvio ha abbandonato la vita quotidiana e non accenna a tornare sui suoi passi. Il contagio, spinto da Omicron, continua a galoppare, nonostante i vaccini, a ritmi speditissimi e i decisori politici, che solo sui vaccini hanno puntato, e non per mancanza di fondi, si ritrovano di nuovo a dover fronteggiare la vulnerabilità del mondo dell’istruzione e lo spettro della didattica a distanza, invocato a gran voce dai molti docenti preoccupati per la propria salute.

Docenti che, com’è noto, sono tanto “innamorati del loro stipendio” da top manager quanto freddini rispetto al sacro compito di educare in presenza le generazioni future.

Il dibattito sull’argomento è stato impostato dalla media-sfera, per dovere di semplificazione illogica, in termini dialettici: stadio vs studio. In sintesi, una società che accetta stadi aperti e scuole chiuse, con la complicità di chi amministra la cosa pubblica, è una società in blackout, poco seria, che manda un brutto segnale, che si narra perversamente. La chiusura degli stadi deve essere, e non può non essere, direttamente proporzionale alla chiusura delle scuole, per pura correlazione morale. La facciata dell’azione politica lo richiede perché “in un Paese civile le scuole non chiudono”.

Ora, che la qualità del concetto non abbia nulla da spartire con lo sfruttamento tattico dello stesso, perché di questo, appunto, si parla, è palese: nessun politico con un minimo di senno si sognerebbe di posporre il diritto allo studio al diritto allo stadio o perlomeno, se anche fosse, non lo dichiarerebbe apertis verbis. Per cui, l’errore insito nel ragionamento di chi fa girare la contrapposizione studio-stadio sembra consistere proprio nel costruire, capziosamente, tale contrapposizione, trattandosi di ambiti completamente slegati su cui sarebbe giusto meditare, in questo momento complesso, con criteri medici anziché con criteri di ricerca del consenso.

Frequentare lo stadio significa stare all’aperto, con mascherina e green pass, condizioni che riducono notevolmente le possibilità di rimanere infettati. Andare a scuola, soprattutto alle medie e alle elementari, significa stare al chiuso e in un contesto in cui la vaccinazione, per ragioni anagrafiche, latita, il che aumenta notevolmente i rischi di contagio.

Per scongiurare la didattica a distanza nella stagione invernale e dimostrare una concezione non meramente propagandistica della dimensione scolastica sarebbe stata sufficiente una pianificazione adeguata in tempi utili: implementare il personale, dimezzare gli alunni per classe, sfruttare edifici con aule più spaziose, introdurre macchinari per la purificazione dell’aria, ecc.

Ma come spesso accade, la realtà tende a smentire il marketing politico, che per tutelare la propria clientela non ha altra scelta se non l’escogitare narrazioni stravaganti che consentano di trasformare i fallimenti da mancanza di programmazione in decisionismo. Come, ad esempio, il giustificare l’ormai probabile chiusura delle scuole, con doppio carpiato logico, attraverso l’inutile riduzione della capienza degli stadi. La facciata è salva, il messaggio arriva, la gerarchia dei valori, o degli annessi simulacri, è preservata: le scuole chiuderanno per ultime e solo perché sarà ineluttabile.

Questo in un Paese in cui più che altrove l’istruzione non ha mai rappresentato una priorità, almeno non negli ultimi trent’anni. Gli stipendi degli insegnanti, condannati al precariato cronico e a sistemi di reclutamento da cantiere edile, sono tra i più bassi dei Paesi dell’OCSE. I concorsi per lo sblocco di nuove assunzioni sono rarissimi e organizzati con requisiti d’accesso demenziali e prove selettive umilianti. Le strutture scolastiche, soprattutto nel Mezzogiorno, cadono a pezzi. La continuità didattica è un miraggio e la dispersione scolastica è in aumento. Per non parlare, poi, del sistema universitario, la cui legge immanente è l’indigenza.

Il contesto scolastico italiano è vittima di un’entropia ingovernabile. Innervata da un susseguirsi di riformismi modaioli fondati sull’assioma della scuola-azienda. Che con il concetto di “Paese civile” ha davvero poco da spartire. E tale tendenza non potrà certo invertirsi considerando le inscalfibili virtù teologali (skills, pardon) suggerite dall’odierno mercato del lavoro: collezionare followers, avere un buon social media manager, sfruttare il proprio capitale di seduzione, produrre nuovi bisogni, produrre nuove figure professionali, produrre performance economiche inedite, dedicarsi all’autopromozione h24.

Ma, per carità, gli stadi sono vuoti, le scuole sono aperte. Questo conta. Perché chiuderle è una sconfitta, distruggerle lentamente invece…

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