Governo

Se ne sentiva il bisogno (di altre motivazioni per il Sì al referendum)

27 Novembre 2016

Ormai lo sport nazionale sembra essere dire la propria opinione sul referendum del 4 dicembre. Per non essere da meno, ho deciso di contribuire anche io. Con la mia consueta capacità di sintesi (sic).

Cambiare è necessario?

Come partire, cambiare è un po’ morire. Nella mia personale biografia di persona ansiosa, ricordo che ad ogni cambiamento grosso nella mia esistenza iniziavo a fare sogni strani in cui dovevo salutare gli amici sperando di poterli rivedere nell’Aldilà (!). Cambiare significa, sempre, abbandonare qualche certezza e salutare pezzi del nostro passato. Poi, quest’anno, mi sono successe almeno due cose: mi sono sposata e ho cambiato lavoro. E non ho avuto incubi. Perché avevo desiderato e programmato questi cambiamenti a lungo, e perché avevo riflettuto bene su una serie di “ammortizzatori” che mi consentissero di sapere che, nel caso, sarei caduta sul morbido. La mia vita – lo dico senza alcuna retorica – è cambiata decisamente in meglio. Cosa c’entra, questo, con la riforma costituzionale?

Dopo decenni di discussione – tre bicamerali, innumerevoli documenti congressuali di partiti e sindacati (anche la CGIL!), tentativi malriusciti, una Corte Costituzionale ridotta a passare metà del suo tempo a dirimere contenziosi tra Stati e Regioni – credo che l’Italia sia pronta per tentare di uscire dalla situazione in cui è bloccata da tempo – da ben prima che le ondate populistiche si impossessassero del discorso pubblico in ogni parte del globo. Questa riforma non nasce dal nulla; non è frutto della mente invasata di un Matteo Renzi in delirio di onnipotenza, anche se spesso lui non fa molto per nascondere il suo ego ipertrofico; non è un capriccio degli ultimi due anni, di un governo che non vuole occuparsi degli italiani e preferisce occuparsi di quisquilie (questa ultima cosa, lo dico sinceramente, mi manda ai matti: la garanzia migliore di lunga vita, per un governo, è quella di accontentare gli elettori anche quando la cosa non è nell’interesse del Paese. Davvero pensate che se il suo unico obiettivo fosse stato quello di sopravvivere a lungo in Italia Renzi si sarebbe impelagato in una rogna come questa?). Già durante il governo Letta era stata messa in piedi una ennesima commissione: 35 cosiddetti “saggi”, costituzionalisti raccolti da Letta e Napolitano per elaborare l’ennesima bozza di riforma, con l’idea di concludere il percorso con un referendum a garanzia della legittimazione popolare. E davanti ad un Parlamento incapace perfino di trovare un accordo sul nome del Presidente della Repubblica, nel 2013, Napolitano aveva scelto di farsi rieleggere a una condizione: che il Parlamento finalmente facesse quello che avrebbe dovuto fare da anni. Cioè una cosa: riformarsi. Poco importa che io personalmente non abbia apprezzato tutto il teatrino della sua rielezione e che ritenga molte delle mosse politiche di Napolitano poco condivisibili e per nulla lungimiranti: ma solo io ricordo un Parlamento in estasi applaudire alle sue parole? Solo io ricordo condivisioni entusiaste dei passaggi del suo discorso sulla necessità delle riforme? Solo io ricordo che già allora, senza aspettare la mucca nel corridoio, Napolitano parlava di crisi europea e mondiale, e di Italia inserita in questo processo di crisi “con le sue forze e con le sue debolezze”?

Il cambiamento non è un valore in sé, ho sentito dire spesso. Ed è certo vero se si tratta di un cambiamento affrettato che non risponde a esigenze radicate nella realtà e non si cura di alcun tipo di change management (di quei contrappesi necessari a non farsi male se qualcosa nel processo va storto). Ma data per assodata la seconda parte di questa affermazione – considerando cioè che il tema dell’aggiornamento della nostra Carta è un’urgenza presente da molti anni, radicata nella realtà della politica italiana – resta da dimostrare che questa riforma porti il nostro paese in avanti – e non indietro. Cosa di cui sono convinta, per ragioni tecniche e per ragioni politiche.

***

Il rapporto Stato-Regioni e la riforma del Titolo V

È notizia di ieri: la Corte Costituzionale, con una sentenza evolutiva, ha dichiarato incostituzionale parte dei decreti attuativi della riforma della Pubblica Amministrazione. Non si tratta di scorie nucleari gettate dallo Stato assassino in una meravigliosa campagna incontaminata contro il parere di chi ci abita (a volte, parlando del Titolo V, sembra che la riforma punti a questo, secondo l’immagine corrente di uno Stato che desidera solo, sempre e comunque la rovina dei suoi cittadini: e davanti a questa impressione così ricorrente penso che le colpe devono essere tante, se si è arrivati a questa diffidenza profonda rispetto a tutto ciò che è Istituzione). Non si tratta nemmeno di cose a mio avviso sacrosante, come l’idea che il turismo e l’energia debbano essere coordinate a livello statale e non lasciate alla discrezione delle singole Regioni. Si tratta di una Riforma-Della-Pubblica-Amministrazione. Dei diritti e dei doveri dei lavoratori pubblici. E basta una regione – UNA – per bloccare i decreti attuativi che dovrebbero far entrare in vigore la legge anche in tutte le altre diciannove.

Sono fatti come questi, ancora più delle acute e precise disquisizioni di un Sabino Cassese, a farmi pensare che la devolution ha fallito e che è ora di porvi rimedio. E se nemmeno la precisa distinzione tra le competenze dello Stato e quelle delle Regioni con il superamento della competenza concorrente servirà, come sostiene qualcuno, a eliminare completamente le controversie, tra 15 anni altri potranno perfezionare il metodo (con lo stesso spirito, per altro, che il padre costituente Meuccio Ruini applicava alla Costituzione del ’48: “La costituzione – diceva Ruini – sarà gradualmente perfezionata; e resterà la base definitiva della vita costituzionale italiana. Noi stessi – e i nostri figli – rimedieremo alle lacune e ai difetti, che esistono, e sono inevitabili“). Se, per paura di eventuali altre controversie, non facciamo nulla, possiamo stare certi che passeremo i prossimi anni a scannarci, come abbiamo mostrato di saper fare fin troppo bene, per calcolare le probabilità teoriche di riuscita di altri modi per organizzare il rapporto tra Stato e Regioni; ma avremo perso una possibilità concreta, quella di mettere alla prova un metodo alternativo all’attuale, sviluppato proprio sulla base dell’esperienza della Corte (e non da un apprendista stregone con molto tempo libero).

Un Senato europeo

Qualcuno, a questo punto, potrebbe obiettare che nemmeno un eccessivo centralismo farebbe bene all’Italia. Che le regioni hanno fatto tanto male ma anche tanto bene, soprattutto da qualche parte, e che spostare tutto al centro non è la risposta giusta.
Su questo punto sono due gli aspetti che mi portano a dire sì alla riforma, e sono diversi. Da una parte mi pare centrale il meccanismo di promozione delle ragioni virtuose, codificato nel nuovo art. 116: le regioni che hanno il bilancio in ordine potranno godere di maggiore autonomia in una serie di ambiti codificati (tra cui ad es. politiche sociali, istruzione, politiche attive del lavoro, formazione professionale, tutela dell’ambiente). Dall’altra non è per me possibile ignorare il ruolo del nuovo Senato delle Autonomie: costituito in maggioranza da Consiglieri regionali e Sindaci, sarà estremamente specializzato sull’impatto delle leggi centrali sulle periferie, e il suo ruolo non sarà solo quello di offrire ulteriori contrappesi in caso di cambiamenti costituzionali o di elezione di organi di garanzia, ma anche – direi forse: soprattutto – quello di dare una voce coordinata e forte alle esigenze locali. Come? Il Senato potrà dare un parere non vincolante su tutte le leggi, andando gioco forza a esprimersi solo su quelle che toccheranno gli interessi vivi dei territori (non darà infatti la fiducia al Governo, da cui sarà slegato politicamente anche a causa della sua composizione fluida, in virtù delle differenti scandenze di mandato dei suoi membri); e avrà obbligo di esprimersi laddove, ad esempio, si faccia ricorso alla cosiddetta “clausola di supremazia”, che permette allo Stato centrale di scavalcare le autonomie locali (e in questo caso la voce del Senato avrà un peso maggiore). Ma soprattutto permetterà alle Regioni di coordinare l’attuazione locale della legislazione europea. Non tutti lo sanno, ma già oggi alle Regioni è dato potere di interlocuzione diretta con l’Unione Europea: oggi questa interlocuzione avviene in modo disorganico e ogni Regione la gestisce per sé o non la gestisce affatto, mentre un Senato come questo – strutturato e coordinato a livello istituzionale – porterebbe gioco forza a migliorare la qualità dell’interlocuzione dei nostri territori con l’Europa. Per me, che non riesco ad immaginarmi se non europea, questa è la novità più bella: perché un miglior dialogo delle autonomie territoriali con l’EU porterebbe a un rafforzamento del progetto europeo anche nell’esperienza quotidiana dei cittadini. E perché in questo modo l’Italia diventerebbe uno tra i primi paesi EU a inserire il progetto europeo anche nei meccanismi istituzionali codificati nella Costituzione.

La logica e il “combinato disposto”

Uno dei punti su cui mi sono più concentrata, cercando di capire le obiezioni delle persone con cui ho maggioramente discusso, è il famigerato “combinato disposto” tra riforma costituzionale e legge elettorale. La mia pancia – per dirla con Grillo – mi diceva che era piuttosto improbabile che tante persone che stimo fossero favorevoli all’avvento di una dittatura. Ma ho voluto vederci chiaro: mi sono andata a guardare i numeri, ho ragionato, ho fatto passare gli istituti di garanzia. E mi sono convinta di un paio di cose. La prima: parlare di “combinato disposto” come motivazione a votare No significa compiere un errore logico. Proviamo a ribaltare la prospettiva e ammettiamo che il Parlamento avesse approvato questa riforma in presenza di un proporzionale puro. Chi ci avrebbe garantito, un domani, che il Parlamento non scegliesse di cambiare la legge elettorale in senso maggioritario? Una Costituzione deve poter difendere al meglio la democrazia indipendentemente dai sistemi elettorali con cui è “combinata”: se non lo fa, allora c’è qualche problema nel suo stesso dettato. E chi sostiene – per me a torto – che combinare la Costituzione riformata con una legge elettorale fortemente maggioritaria porti con sé dei rischi dovrebbe riuscire a spiegare quali siano i passaggi, nella Costituzione stessa, che contengono in nuce questi rischi.
A furia di approfondire, però, mi sono convinta di un’altra cosa, che va al di là della logica e si spinge un po’ più all’interno delle questioni tecniche e delle loro interpretazioni. Se guardiamo alle leggi elettorali della storia della Repubblica italiana, si vede chiaramente – almeno: questo vedo io, semplice cittadina che si è messa di buona lena a studiare – come la Costituzione sia stata scritta in un orizzonte proporzionale, pur senza che la legge elettorale sia stata integrata nella Costituzione stessa: lo si vede, a mio avviso, da dettagli come quelli riguardanti la dichiarazione dello stato di guerra, per cui bastava un voto a maggioranza semplice, o il quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica. Ma dagli anni Novanta – e in particolare dall’introduzione del Mattarellum nel 1993 – il proporzionale ha lasciato spazio al maggioritario: nel 2006 per l’Ulivo, che aveva preso neanche 25.000 voti in più della coalizione di centro-destra e aveva una maggioranza risicatissima resa ancora più esile dai meccanismi del Porcellum, fu possibile eleggere in autonomia il Presidente della Camera, il Presidente del Senato e il Presidente della Repubblica. La Costituzione del ’48, che non può essere perfetta proprio come tutte le cose umane, non prevedeva un freno contromaggioritario: forse proprio perché nell’orizzonte di chi l’aveva scritta il maggioritario ancora non si vedeva. Ma in un contesto storico diverso, in cui il maggioritario è entrato a far parte, pur con continui tentennamenti, della nostra cultura politica, io credo che qualche ulteriore contrappeso volto a garantire al meglio il processo democratico possa servire (attenzione: benché io sia favorevole al maggioritario, non sto dicendo che è in assoluto un bene che in Italia il proporzionale sia superato: sto solo dicendo che, storicamente, siamo da circa vent’anni in una fase maggioritaria, e che per questo sarebbe opportuno interrogarsi sui contrappesi presenti nella Costituzione).

Ora, per quanto possa sembrare incredibile visto il dibattito pubblico che si è sviluppato intorno a questo punto, a me pare che questa riforma, in termini di pesi e contrappesi, sia molto più precisa nel limitare i pericoli di una “dittatura della maggioranza” in contesto maggioritario di quanto non sia la Costituzione attuale. Non solo, infatti, grazie ad un altissimo quorum di garanzia sarà impossibile per la maggioranza da sola eleggersi il Presidente della Repubblica (cosa che, abbiamo visto, con la Costituzione attuale non è affatto impossibile); non solo ai diritti delle minoranze parlamentari è dedicato un comma della nuova Costituzione (Art. 64); non solo lo stato di guerra può essere ora deciso solamente a maggioranza qualificata e non più a maggioranza semplice (Art. 78); non solo è stato inserito in Costituzione il principio – per me invero piuttosto problematico – secondo cui ogni legge elettorale, prima di entrare in vigore, possa essere valutata dalla Corte (Art. 73). Non solo, dunque, sono stati inseriti tutti questi elementi di garanzia che prima non c’erano (e non c’erano nonostante un sistema elettorale maggioritario fosse già realtà!); ma è stato introdotto anche il principio per cui sono in primo luogo i cittadini a dover svolgere una funzione di controllo delle loro Istituzioni.

Il principio di trasparenza inserito nell’Art. 97 della Costituzione riformata non è infatti un modo populista per istituzionalizzare lo streaming delle riunioni politiche, a cui ormai ci siamo tutti perversamente abituati. È invece la dichiarazione esplicita della necessità che i cittadini abbiano il diritto di controllare le Istituzioni e la politica: perché è il controllo da parte dei cittadini la garanzia più importante di democraticità. Garanzia che non può e non deve essere circoscritta al momento del voto, ma dovrebbe idealmente allargarsi ad altri momenti di partecipazione. È in quest’ottica, io credo, che sono state rafforzate alcune modalità di partecipazione diretta dei cittadini al processo legislativo: mi riferisco all’introduzione dell’obbligatorietà di analisi delle proposte di legge di iniziativa popolare da parte della Camera (l’aumentato numero di firme, da 50.000 a 150.000, serve ovviamente a impedire che ogni microgruppo di interesse possa facilmente arrivare a presentare alla Camera, obbligata all’analisi del testo, proposte che con l’interesse comune non hanno nulla a che fare); all’abbassamento del quorum per i referendum abrogativi per chi abbia raccolto 800.000 firme al posto di 500.000; all’introduzione di referendum propositivi e di indirizzo. Tutte possibilità date ai cittadini per dire la loro, anche quando non va bene al Governo di turno.

Repubblica parlamentare o Repubblica presidenziale?

Molto spesso, nelle discussioni di questi mesi, ho sentito ripetere che con questa riforma si passa ad un Presidenzialismo di fatto. Sul punto, mi pare che siano due gli aspetti importanti da sottolineare: la riforma della decretazione d’urgenza e l’introduzione del cosiddetto “voto a data certa”. Che nei decenni i Governi di ogni colore abbiano abusato dello strumento del Decreto Legge non è un mistero: né è un mistero che i decreti fossero anche l’occasione buona per inserire nottetempo paroline misteriose che con l’argomento del decreto non c’entravano nulla (le cosiddette “manine”). Lo spiega bene e in parole semplici l’enciclopedia Treccani: “il decreto-legge finiva per essere un vero e proprio strumento ordinario di legislazione e il Governo veniva ad assumere stabilmente poteri legislativi, in violazione del testo costituzionale, che qualifica il Parlamento come unico titolare della funzione legislativa”. Quello che cerca di fare questa riforma è di tutt’altro segno: limitare la decretazione d’urgenza significa restituire al Parlamento la centralità che gli dovrebbe essere propria in materia legislativa (per i dettagli tecnici rimando a un bel contributo del Prof. Marco Plutino). Ma come sempre c’è un ma: questa restituzione al Parlamento sembrerebbe vanificata dall’istituzione del “voto a data certa”, che perfino sulla pagina nazionale del Comitato per il Sì è illustrato così: “Si parla forse poco di una misura cruciale della riforma costituzionale: il nuovo Articolo 72 della Carta. Esso prevede per l’esecutivo la possibilità di richiedere al Parlamento una via preferenziale per l’approvazione di un disegno di legge ‘essenziale per l’attuazione del programma di governo’. È l’introduzione dei cosiddetti disegni di legge a data certa: il governo presenta una proposta e il Parlamento dovrà approvarla o respingerla entro 70 giorni“. Se il Governo può fare pressione sul Parlamento per far passare tutti i provvedimenti che ritiene importanti per la realizzazione del proprio programma, dove finisce la tanto celebrata centralità del Parlamento? Ci ho ragionato un po’, provando a capire bene le implicazioni di questa novità. E mi pare che in sostanza i cambiamenti siano due: il primo, che il Governo interviene per realizzare punti considerati rilevanti nel patto che chi è stato eletto ha stretto con i suoi elettori. Ancora una volta è richiesto ai cittadini uno sforzo di partecipazione: saranno loro, alla fine della legislatura, a valutare l’operato del Governo sulla base dei risultati ottenuti e dei programmi presentati in campagna elettorale. Il secondo, che il Parlamento non si troverà più davanti ad un decreto già fatto e finito, con pochissimo margine di manovra e un insieme di aggiunte fatte da funzionari ministeriali spesso ignoti. Per dirla – meglio – con le parole di Plutino: “Nello stesso voto a data certa, sicuramente uno strumento significativo, la ghigliottina funzionale alla votazione finale interviene con tempi non draconiani (70 giorni), fissati fin dall’inizio (e non a insindacabile giudizio del governo come accade in fatto con i decreti legge), all’occasione prorogabili (per altri quindici giorni) e, almeno potenzialmente, senza alcun bisogno che il governo ponga la fiducia, almeno secondo la sua (frequente) finalità anti-ostruzionistica. Il parlamento ha quindi tutto il tempo per discutere e, se farà un uso responsabile delle proprie prerogative, potrà ben modificare il progetto entro i limiti consentiti dalla dialettica tra governo e maggioranza e, in misura fisiologicamente minore, maggioranza e opposizione”. Anche in questo caso, dunque, non solo non si ha un passaggio nascosto verso il Presidenzialismo; si ha un rafforzamento del Parlamento e delle sue prerogative.

Considerazioni politiche a margine (e soprattutto: Fine)

Ho scelto di partire dalle ragioni di merito, ma – per chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui – non voglio lasciar perdere le motivazioni politiche a contorno che confermano ulteriormente la mia decisione di voto. Quando, mesi fa, Renzi ha dichiarato che se al Referendum avesse vinto il No lui se ne sarebbe andato, non ho pensato che avesse torto: ho pensato che avesse fatto un errore tattico. Un Governo nato in un contesto come quello che ho descritto all’inizio, legato a doppio filo alla realizzazione di riforme strutturali, se non riceve la legittimazione popolare per il suo operato fa bene ad andare a casa. Fa così bene che senz’altro, se Renzi non avesse voluto fare una delle sue renzate giocando d’attacco prima che la partita fosse realmente aperta, qualcun altro avrebbe nel giro di poco tempo impostato la campagna per il No come una campagna contro di lui, senza però poter usufruire del suo generoso assist.

Che la legittimazione di Renzi – il quale non ha mai guidato un partito o una coalizione alle elezioni politiche, non è dunque stato “eletto” con tutte le virgolette del caso, e che governa con un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale: argomento, come sappiamo, agitato ad ogni pie’ sospinto da molti soggetti politici – che dunque la legittimazione di Renzi si esaurisca se il referendum non passa per me è chiaro e sacrosanto. Restare a governare dopo una bocciatura popolare sarebbe innanzitutto un affronto nei confronti di chi si è recato alle urne per esprimere la sua opinione sull’operato di questo Governo relativamente al suo mandato, quello – appunto – di fare le riforme. Lo scenario più probabile, dopo averci riflettuto a lungo e averne discusso con chiunque mi capitasse a tiro, è che ci sarebbe un ennesimo governo “tecnico” per riscrivere la legge elettorale, sostenuto anche dal PD.
E dico la verità: lasciando perdere lo spread, le conseguenze sull’Europa, la credibilità internazionale e chi più ne ha più ne metta, non so voi, ma io, di governi “tecnici”, inizio semplicemente a non poterne più. 

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