Governo

Se trionferanno i populismi non sarà colpa dell’accozzaglia

13 Dicembre 2016

Quando ci saranno le prossime elezioni politiche (quando?) che tutti paiono invocare con foga, il conto potrebbe essere salato e a pagarlo sarà la tenuta democratica del paese, cioè ogni singolo cittadino. Cioè noi. Una ipotetica vittoria dei populismi infatti (per populismi leggasi in ordine decrescente: Movimento 5 stelle, Salvini e Fratelli d’ Italia), provocherebbe   una torsione fortissima, con conseguenze davvero gravi nell’immediato e in prospettiva, innanzitutto sul piano sociale.
Di fronte ad uno scenario, tuttaltro che irrealistico, che potrebbe salutare un Di Maio alla presidenza del consiglio, un Di Battista all’Interno, un Toninelli agli Esteri, una Taverna all’Economia, il Partito Democratico sarebbe solerte nell’incolpare, anche a distanza di mesi,  il fronte del No al Referendum, con particolare riferimento alla sotto-accozzaglia di “equidistanti” da tutti gli schieramenti a partire dal proprio rei, con il loro voto malpancista, di aver preordinato il disastro.
Un antico detto emiliano (che Bersani di certo conoscerà) recita: “La colpa è una bella donna ma nessuno la desidera”. E la colpa il Partito Democratico, anche nella sua versione più edulcorata di “responsabilità”, non se la vorrà prendere allora, come non vuole intestarsela ora.
Citando un fiero difensore della Costituzione, Oscar Luigi Scalfaro, chi ha votato NO sentendosi  sideralmente lontano dal Grillismo di Sinistra (esiste?) e dal Renzismo di Destra (esiste), dovrebbe dichiarare subito il suo: “ a questo gioco al massacro io non ci sto”.
Le responsabilità del probabile venturo sfascio, infatti, saranno tutte in capo alla classe dirigente che ha governato il paese negli ultimi 1000 giorni e che continua a farlo beatamente inconsapevole e tristemente menefreghista di un voto netto di bocciatura al proprio operato.

Questo processo di autismo istituzionale è destinato fatalmente ad essere portato alle estreme conseguenze dal neonato esecutivo Gentiloni che sancisce un ulteriore infittimento delle nebbie fra “piazza” e “palazzo”.
L’operazione voluta da Renzi è a tal punto tatticamente suicida da apparire incredibile. O Forse no, se si pensa a come ormai la “visione tolemaica” del potere, rubando la perfetta metafora di Ferruccio De Bortoli, stia obnubilando la visuale di chi, fino a un paio di anni fa,  studiava con profitto da “statista del futuro”.
Nell’ elegiaco post del “ritorno a Pontassieve” erano già presenti i sintomi chiari di questa confusione mentale, basti pensare alla sottolineatura dello status di disoccupazione senza paracadute, verso cui il segretario del PD si avviava mesto, data in pasto ad un popolo composto da un povero ogni quattro individui (uno ogni due in quel Sud ove il SI, il 4 dicembre, non ha praticamente visto palla).
La lista dei nomi sciorinati da Paolo Gentiloni ha definitivamente chiarito che quei sintomi rappresentavano l’avvisaglia di una patologia grave quanto difficilmente classificabile se non con la definizione semplificata di “progressiva perdita del senso di realtà”.
La sostituzione del Ministro Giannini appare come l’unica risposta molto epidermica al voto di protesta del referendum; epidermica e superficiale ( la #buonascuola è parto del renzismo militante prima ancora che della ministra uscente),ma soprattutto poco convincente come atto concreto di autocritica.
Gli insegnanti in Italia sono circa 700 000 ed anche volendo credere che tutti, ma proprio tutti, abbiano bocciato la riforma costituzionale, non sarebbero certo risultati determinanti.
La sostituzione con Valeria Fedeli pare invece leggersi più semplicemente come un “premio fedeltà” ad una renziana dell’ultima ora che ha bazzicato Leopolde su Leopolde, pur di farsi notare a dispetto del dato anagrafico e del passato un filino imbarazzante di dirigente nazionale della detestata CGIL.
Giuliano Poletti resta saldamente al suo posto. Il padre putativo del fallimentare JobsAct ( i licenziamenti sono aumentati del 10% nel 2016 rispetto al 2015, le assunzioni, prive dell’effetto doping degli sgravi, languono, i voucher continuano la loro avanzata inesorabile) doveva e poteva essere sostituito.

Teresa Bellanova, seppur anch’essa fortemente “renziana”, sarebbe stato un segnale di discontinuità importante.
Anche al suo impegno si deve una delle poche leggi positive varate dall’esecutivo (quella contro il caporalato) ; al suo proattivismo vanno ascritte le soluzioni trovate, spesso sapientemente tessute, di diverse crisi aziendali ai tavoli del Ministero dello Sviluppo.
L’avvicendamento di Poletti, non con la reincarnazione di Di Vittorio si badi bene, ma con una profonda conoscitrice delle dinamiche del mercato del lavoro e della pratica delle relazioni industriali, avrebbe inviato un messaggio forte di attenzione (e non necessariamente di ripensamento rispetto a quanto fatto fino ad ora in materia di normative), che non sarebbe dispiaciuta ai tanti lavoratori precari, giovani e meno giovani, vittime incolpevoli e arrabbiate  della mistificazione renziana.
Tralasciando le migrazioni imbarazzanti (Alfano) e le altrettanto imbarazzanti riconferme (Boschi e Lorenzin), la vera ciliegina sulla torta è stata la creazione del Ministero dello Sport da affidare ad un altro petalo portante del Giglio Magico, Luca Lotti.
Non si comprende l’utilità di un nuovo ministero (per giunta dello sport) in un governo che nasce col precipuo fine di produrre una nuova legge elettorale e che tutti vogliono a breve scadenza.

Ancor meno si comprende ( e di certo non lo comprenderanno gli italiani) come si può condurre gran parte della campagna elettorale agitando il vessillo del taglio dei costi della politica e poi aggiungerne di nuovi ( il ministero avrà una sua struttura, degli addetti, dei funzionari etc).
A Renzi abbiamo tutti bene o male dovuto riconoscere scaltrezza e fiuto in questi anni. Detestarlo era anche un po’ invidiarlo per le sue indubbie doti di vedere avanti e oltre il contingente. Era un Renzi diverso, un Renzi vissuto, anche per effetto di un colossale inganno percettivo, come vincente a prescindere.
Il Renzi sconfitto ci appare come il fantasista che palleggia in mezzo al campo attorniato da una squadra di brocchi senza schemi e senza gambe; forse proverà ancora a risolvere la partita con un guizzo, ma al massimo, segnerà il gol della bandiera. Nel momento in cui la parola d’ordine dovrebbe essere “responsabilità”, il tanfo di conservazione dello status quo che si respira ovunque, rischia di gettare benzina su un malcontento che anziché demonizzato o ignorato andrebbe semplicemente ascoltato. La paura del dissenso non è mai sinonimo di forza; ingannare il dissenso poi, farsene addirittura beffe, è un atto irresponsabile e pericoloso, in un clima generale ( e non solo nazionale)  in cui si ritiene follemente utile comprimere gli spazi democratici al solo fine di addomesticarne il libero esercizio.

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