Governo
Se a dimettere boiardi e ministri ci pensano Report e i giudici, e non Renzi
Ci sono parametri piuttosto chiari per definire l’autorevolezza di un governo e non sono soltanto i numeri con cui costella e lastrica di buone intenzioni il suo cammino. Uno di questi è il coraggio istituzionale, in gergo calcistico si risolverebbe con “scelta di tempo”, di intervenire su cose e persone che in qualche misura producono al governo stesso un problema di ordine etico. Un problema che agli occhi dei cittadini comincia a montare e a farsi insostenibile via via che le notizie di stampa si fanno sempre più pressanti, più precise, più incisive, restituendo all’opinione pubblica un quadro discretamente inquietante. In questa terra di mezzo, tra emersione di notizie poco rassicuranti e definizione finale di una vicenda, il governo è chiamato a decidere cosa fare, come intervenire, quale indirizzo dare alla sua azione. Sotto questo cielo, il governo Renzi ha scelto di non scegliere, di restare fermo come il famoso semaforo di Prodi rappresentato mirabilmente da Corrado Guzzanti, di farsi risolvere il problema da altri, sperando – appunto – che altri risolvessero per lui. Una condizione di pericolosa debolezza che ne definisce il tratto assai poco coraggioso.
I casi clamorosi sono due, più un terzo caso anch’esso di grande impatto, ma esploso per via interna. L’ultimo, il più recente, è quello del presidente dell’Anas, Pietro Ciucci, che è stato sostanzialmente dimissionato da «Report» e non come doveva essere, per una questione di decenza istituzionale, da Renzi e dal suo neo-ministro Del Rio. Come già accadde per Di Pietro, che la trasmissione della Gabanelli demolì senza pietà sulla pubblica piazza televisiva raccontando l’oscura gestione dei beni dell’Idv, certificando in maniera inoppugnabile la fine della carriera politica dell’ex pm di Mani Pulite, anche nel caso del numero uno di Anas la sceneggiatura è stata sostanzialmente la stessa. Balbettando le sue poco convincenti giustificazioni di fronte a Giovanna Boursier sui viadotti crollati, domenica sera Ciucci ha praticamente chiuso la sua lunghissima carriera. L’impatto sull’opinione pubblica – questa la forza di Report – è stata di tale impatto che, guarda caso, il giorno dopo il medesimo Ciucci si è presentato al ministero di riferimento rimettendo nella mani di Del Rio il suo mandato, spargendo la bubbola del “rispetto per il nuovo ministro” quando invece il timore d’essere preso a pernacchie per strada si era fatto molto, molto, tangibile. Il governo non poteva non gradire questa liberale apertura di Ciucci e ha accettato le dimissioni con un sospirone di sollievo.
Questa vicenda ha messo in luce la fragilità del governo Renzi e il suo scarso coraggio rispetto a certe inevitabili decisioni da prendere. Che nel caso del presidente dell’Anas potevano (dovevano) datare molti e molti mesi fa, ma nessuno ha mai mosso paglia per la paura fottuta della reazione di questi grandi boiardi che nei secoli si sono procurati reti straordinarie di protezione politiche (non è un caso che l’amico Ciucci sia un pupillo di Romano Prodi che poi Berlusconi confermò). Non sarebbe stato dignitoso, gentile Renzi, che lei avesse provveduto a dare un segno di discontinuità?
Il caso di Maurizio Lupi, diverso nella sua struttura narrativa, nel punto finale ha avuto la stessa definizione. Portato alla luce da altri, in questo caso con un’inchiesta della magistratura, è stato gestito dal governo come un corpo estraneo, attraverso pubblici silenzi e passaparola da corridoio giornalistico perché all’esterno arrivasse il senso di un disdoro. Sino al momento in cui, l’opinione pubblica – magari anche nelle sue forme più complesse e deteriori – ha fatto il resto, completando l’opera con un’indignazione di massa. Nemmeno a quel punto Renzi si è sentito nella condizione di intervenire, lasciando a uno sfiancato Maurizio Lupi la decisione finale di lasciare il ministero. E a quel punto, il governo ha tirato l’ennesimo sospiro di sollievo. Non decidendo, aveva comunque ottenuto il risultato.
C’è un terzo caso, eclatante, in cui l’innesco è avvenuto invece per via interna. E che, se vogliamo, ha ottenuto l’effetto contrario ai due precedenti, costringendo Renzi a un passo che mai avrebbe voluto fare: fare pubblica ammissione di affetto e di stima a Gianni De Gennaro a sentenza della Corte di Strasburgo ancora calda. Una sentenza che ufficializzava l’ingresso della parola “tortura” nelle nostre istituzioni. L’incredibile paradosso, un premier che ringrazia per l’ottimo lavoro che svolge il presidente di Finmeccanica, quando anni e anni prima il medesimo comandava la Polizia del G8 di Genova, è il frutto malato di un partito che non c’è, dove il suo presidentie, Matteo Orfini, con un tweet guerrigliero al suono di “mi vergogno di De Gennaro”, ha regalato al suo nemico la solidarietà dell’intero governo.
Evitare questa figuraccia complessiva si poteva. Decidendo, appunto. E decidendo per tempo che De Gennaro aveva fatto il suo tempo – un tempo lunghissimo con tutti i governi – e che per lui si potevano spalancare le porte della pensione.
Devi fare login per commentare
Login