Governo
Scenari post voto dal paese più interessante d’Europa
L’Italia ha votato e ha scelto Salvini, il cerino della crisi è in mano al M5s e il governo è appeso a un filo. In Europa siamo soli.
Salvini trionfa, il M5s sta sotto a un treno, il centro-sinistra è vivo e da qui può ripartire, e scontato non era. L’Italia vira decisamente a destra e il bel risultato di FdI, intento nell’opera di dissanguamento di un Berlusconi che fa ormai quasi tenerezza, lo conferma. Nel frattempo il governo barcolla. Questo hanno detto le elezioni europee del 26 maggio per il nostro paese.
Dopo aver passato mesi ad aspettare questa data fatidica tra illusioni di improbabili rivoluzioni in Europa e attese di resa dei conti tra i soci di governo l’un contro l’altro armati a suon di tweet, post e sondaggi, finalmente il dado è tratto. L’Unione Europea sarà sostanzialmente la stessa, convulsioni albioniche a parte, come vedremo più avanti, ma a casa nostra è stato il gran botto. La Lega raddoppia i voti di un anno fa, diventa il primo partito in due terzi della penisola, doppia il partner di governo, rubandogli una bella fetta di voti e invertendo completamente i rapporti di forza fotografati il 4 marzo dell’anno passato. Salvini ha cucinato la sprovveduta compagnia pentastellata per mesi e ora ha servito un piatto coi fiocchi. Con buona pace dell’ormai commissariato Conte e delle sue velleità di statista, da Capitano il leader leghista è di fatto promosso a premier in pectore con il quasi assoluto potere di vita o di morte sul governo nelle sue mani. Ora il suo obiettivo è approdare a Palazzo Chigi a seguito di nuova tornata elettorale nel giro di alcuni mesi, ma non prima di aver estorto al M5s, sempre con il sorriso in bocca, l’approvazione di qualche altro provvedimento da gettare in pasto agli italiani per la sua prossima campagna elettorale: Tav, autonomie, flat tax, sicurezza, forse anche giustizia. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Lo spettro di un eventuale governo tra M5s e Pd con gli auspici di Mattarella praticamente ormai non esiste più e al Quirinale, pur di controvoglia, non resterebbe che concedere lo scioglimento delle camere. Unica avvertenza, anche se non da poco: un così ampio consenso non è eterno e va capitalizzato (Renzi docet!), mentre le bucce di banana e i possibili passi falsi sono sempre in agguato, a cominciare dal nodo della prossima legge di bilancio e dalle minacce di tensioni finanziarie sempre pendenti sul nostro paese.
La palla ora è scagliata nel campo di Di Maio, per il momento sopravvissuto alle aspirazioni di defenestrazione di parte della base e di qualche gruppo di peones. Una volta ripresi dalla botta (e che botta! Dimezzati con sei milioni di voti persi e sorpassati perfino dall’odiato Pd) i post-grillini dovranno decidere se farsi dissanguare e umiliare a ripetizione dall’alleato o staccare la spina al governo, cioè in larga parte a loro stessi, per tornare ad una più a loro congeniale opposizione, senza i fastidiosi impicci di doversi confrontare con la realtà, ma col rischio di vedersi accusare dai propri sostenitori di aver gettato al vento un’occasione che forse non tornerà. Che fare? Nel dubbio potrebbe essere utile ricordare che ridursi a ricoprire il ruolo di ostaggi di Salvini e acconsentire a tutte le sue richieste potrebbe non bastare ad evitare la sentenza capitale e la condanna alle urne, chissà a quel punto in quali condizioni. La fine del governo, da qui a un anno, nonostante le recenti apparenti convergenze dei due vicepremier, sembra essere nella naturalezza delle cose, e le strategie dei due partiti a questo punto riguarderanno con molta probabilità l’oggetto su cui si compirà la rottura e il modo migliore per addossarne all’altro la responsabilità. Ci aspettano settimane e mesi interessanti. Per il governo dell’Italia invece non saranno tempi particolarmente tranquilli.
Fuori dal governo, invece, che tempo fa? Sopra il Pd le nuvole non sono ancora del tutto passate, ma almeno ha smesso di piovere e in lontananza si potrebbero anche forse intravedere dei raggi di sole. Zingaretti è riuscito a fermare l’emorragia tenendo unito il partito, ottenendo una tregua dalle correnti e ritornando a recuperare una parte (piccola, va detto) di quei voti in uscita verso il M5s durante l’era Renzi. Considerate le tafazziane convulsioni a cui ci aveva abituati il partito negli ultimi due anni non è poco, ma se il segretario dem pensa perciò di poter dire di aver vinto sbaglia di grosso: gli elettori delusi dal M5s hanno largamente optato per l’astensione e per il voto alla Lega, e solo in misura minore hanno barrato la casella Pd, mentre l’opera di aggregazione di una coalizione competitiva lascia ancora a desiderare. Gli alleati Più Europa e Verdi hanno fallito l’obiettivo del superamento del quorum del 4%, non riuscendo a uscire dalla categoria “cespugli”, mentre se si volge lo sguardo verso sinistra c’è il vuoto (qualcuno in quelle lande desolate dopo più di dieci anni di fallimenti dovrebbe iniziare a farsi qualche domanda). La lunga e ventosa strada verso la costruzione di un’alternativa di governo, che oggi chiaramente non c’è, è però iniziata, e le zoppicanti performance del M5s lasciano ben sperare nella possibilità di riassorbirne in buona parte l’elettorato, rendendolo meno influente sul sistema o almeno più docile. Sarà però fondamentale, per una futura coalizione di centro-sinistra, tornare a offrire una prospettiva credibile agli elettori di centro, liberal-democratici e cattolici. Mentre Zingaretti darà la caccia ai voti perduti a sinistra ci si dovrebbe chiedere, come sembra in diversi stiano già facendo, se non sia più utile a tutti la creazione di un nuovo soggetto in quel campo, sulla traccia dell’ottimo lavoro di Carlo Calenda, che ha fatto incetta di voti e preferenze, e dei progetti di Matteo Renzi, a cui la panchina sta ovviamente stretta. A patto di non mettere in atto scissioni a mezzo di litigi e rancori (capito, Matteo?), perché il motto marciare divisi e colpire uniti funziona solo se non ci si spara addosso a vicenda.
Grandi movimenti di uomini e voti sono previsti in futuro anche nel centro(?)-destra, dove i tempi sembrano ormai maturi per l’eclissi di Berlusconi, fiaccato dall’età, dai tempi nuovi, dall’assenza di una linea politica che non sia il galleggiamento nell’attesa che Salvini gli apra la porta e lo faccia sedere a tavola in un angolo, sempre che il Truce ne abbia l’intenzione. Giorgia Meloni morde il freno, i segnali di un’evoluzione verso un partito conservatore più tradizionale, se pur fortemente identitario su un modello di tipo ungherese o polacco, sono sempre più frequenti. La ridotta di un partito identificato fino ad ora da molti come un novello Msi è limitante, ma dopo l’imbarco di Raffaele Fitto anche un politico acuto quale è Giovanni Toti sembra essere in arrivo e la migrazione da Forza Italia non si limiterà a lui: le strade sono libere verso il centro e saranno percorse, anche se con cautela e fino a un certo punto, perché si potrebbe giurare che le orme di Gianfranco Fini non le voglia percorrere nessuno.
Ad ogni modo, assestati gli schiaffoni e attuate le rese dei conti tra i partiti al governo e non, rimane aleggiante sulla penisola uno scenario di alta instabilità, che ormai sta diventando pericolosamente endemica. La prossima legge di bilancio incombe e il nodo di almeno trenta miliardi da recuperare verrà al pettine, a meno di non voler strappare nuovamente il rapporto con i mercati e con Bruxelles, già in procinto di avviare nei nostri confronti una nuova procedura di infrazione. E proprio qui il governo giallo-verde sconterà la sua debolezza, trasmettendola sfortunatamente all’Italia stessa. Se Roma è lanciata ad alta velocità verso un futuro nazional-populista e sovranista l’Europa va da un’altra parte, o per lo meno rimane ferma, pur in virtù di ricambi non trascurabili nei suffragi ottenuti dai soggetti politici continentali. Checché ne dica qualche commentatore o politico intento da mesi a battere la grancassa dell’onda nera sovranista, tali forze in alcuni paesi (ripetiamo, alcuni!) avanzano, indubbiamente, ma, Italia a parte, con molta moderazione, per giunta divisi da questioni di fondo sia tra i diversi gruppi che al loro interno, come il rapporto con Mosca e la disciplina nei bilanci pubblici. La nuova maggioranza al Parlamento Europeo sarà analoga alla precedente, con la cooptazione da parte di Popolari e Socialisti in calo dei Liberal-democratici e, con minor probabilità, dei Verdi, i due veri vincitori di questa tornata elettorale. Pur risentendo di una possibile maggior farraginosità negoziale e pur dovendo fare i conti con le questioni poste da sovranisti e populisti, essa continuerà quindi nell’alveo del percorso di integrazione europea perseguito negli scorsi decenni.
L’Italia e il suo governo, già privi di chiarezza su chi abbia in mano il timone durante la navigazione nei corridoi di Bruxelles, saranno quindi isolati, ancor più di quanto avvenuto in quest’ultimo anno, sia negli equilibri parlamentari che all’interno del Consiglio Europeo, dove in tanti avranno il fucile puntato contro di noi. Salvini dice che andrà a Bruxelles a ridiscutere trattati e “parametri”. Pur essendo chiaro come alcuni cambiamenti nell’architettura europea siano necessari, saremo in una pessima posizione per negoziarli. Comunque la si pensi, i prossimi mesi saranno da non perdere.
Francesco Linari
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