Governo

Per alzare i salari serve la politica

9 Giugno 2022

 

Quello che abbiamo sotto gli occhi è difficile da notare. Forse per questo ci hanno messo tanto la politica e l’opinione pubblica a parlare della questione salariale nel nostro paese, nonostante il problema fosse chiaro a tutti. Negli ultimi trent’anni, infatti, il nostro paese ha visto una discesa dei salari reali– quelli al netto dell’inflazione-, in controtendenza rispetto al resto d’Europa.

La situazione, a dire il vero, è ancora più drammatica: da tre decenni l’Italia ha smesso di creare ricchezza diffusa, concentrandola sempre di più nelle mani di pochi, sempre gli stessi da generazioni.

Per rimediare a questo problema la politica ha sempre scelto soluzioni facili. Concentrandosi ad esempio su leggere correzioni, come il taglio del cuneo fiscale. O puntando il dito contro gli immigrati colpevoli di “rubarci il lavoro”, la “cattiva Europa e i politici suoi servi” che non ci permettono di crescere o, negli ultimi anni, gli “sfaticati” percettori del reddito di cittadinanza. A differenza delle altre, però, questi ultimi votano e quindi non ha funzionato altrettanto bene per attirare consenso.

Si tratta di narrazioni utili forse dal punto di vista elettorale, ma che non solo non risolvono: addirittura la peggiorano. D’altronde i salari- e la produttività, strettamente legata a questi- non sono scesi per volere divino o perché gli italiani si sono accontentati. La situazione in cui ci troviamo è frutto di tre decenni di politiche, quando non inutili, dannose. Non solo per i demeriti dei populisti- termine improprio per descriverli- che hanno un posto di primo piano nella politica italiana da anni, ma anche quelli dei presunti competenti.

Basta pensare al mercato del lavoro: bisognava flessibilizzarlo, andando incontro alle richieste del mondo imprenditoriale. A partire dal Pacchetto Treu fino al Jobs Act, passando per la riforma Biagi, il mantra è stato proteggere meno per proteggere tutti, cercando di liberare il potenziale nascosto del mondo dell’impresa.

Quello che invece è successo lo sappiamo: precarietà, salari bassi, scarse opportunità, produttività stagnante e sfruttamento. E, come diretta conseguenza, una concentrazione di ricchezze sempre più iniqua. Ricchi che diventano sempre più ricchi, poveri che diventano sempre più poveri, una classe media che un tempo andava alle Maldive e ora si deve accontentare della Puglia o della Riviera Romagnola.

Per invertire la rotta, però, la strada non è semplice. I problemi sono profondamente radicati all’interno del sistema paese: il nanismo delle aziende, il dualismo all’interno del mondo del lavoro, un’economia sbilanciata verso i servizi, una pubblica amministrazione depauperata da anni di tagli. E si potrebbe andare avanti. Più che interventi mirati, quindi, servirebbe un cambiamento di prospettiva radicale sul lungo periodo.

Per farlo, però, bisogna scontentare qualcuno.

Il ruolo della politica, un tempo, era proprio questo: scegliere da che parte stare. Negli ultimi anni, invece, ci si è convinti che la politica non servisse più, che era una perdita di tempo o un danno. Al contrario per far funzionare il paese servivano le competenze e la tecnica imparziale, magari in nome della responsabilità, non quei relitti del ‘900 chiamati ideologie.

L’evoluzione del governo Draghi sta mostrando quanto fallace fosse quest’idea- anche se, probabilmente, lo si è sempre saputo. Quello che doveva essere il governo dei migliori si è trasformato in un coacervo di interessi di partito e veti incrociati. Basti pensare alle divisioni in seno alla maggioranza riguardo le concessioni balneari, tema del tutto secondario in un paese normale che ha invece tenuto ingessata la politica italiana per settimane.

Prima delle proposte e dei programmi- con buona pace di chi si riempie la bocca di pragmatismo per nascondere l’inconsistenza politica e intellettuale-servirebbe un posizionamento netto sulla parte che si intende rappresentare: la rendita o il lavoro? I privilegi o le opportunità?

Sarebbe ingenuo credere che i politici italiani se lo siano dimenticato. In realtà è abbastanza chiaro: dietro la tecnica imparziale, sbandierata in pubblico con la stessa veemenza degli argomenti xenofobi o anti-casta dei partiti più estremisti, si nascondono spesso precise scelte di campo che non è però conveniente esprimere ad alta voce.

Il problema, quindi, è che buona parte dello spettro politico sa già da che parte stare.  

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