Governo

Ritornare sovrani per ritornare belli?

18 Aprile 2017

Ultimamente l’Europa, o almeno il dibattito sull’Europa, è diventato centrale nella nostra quotidianità. Il dibattito verte, principalmente, su un eventuale ritorno alla “sovranità nazionale” declinata in sovranità monetaria (stampare moneta), economica (dazi doganali) e politica (chiudere le frontiere ai migranti).

La settimana scorsa, leggendo questo articolo di Munchau*, mi sono chiesto se, limitatamente al caso italiano, le soluzioni che i sovranisti propongono abbiano o meno un barlume di verità.

IL PUNTO.

La sovranità (o meglio il ritorno alla sovranità) viene vista e pubblicizzata come la panacea contro ogni male (reddito di cittadinanza, maggiore spesa pubblica, riduzione dell’età pensionabile, in poche parole “no austerity”).

Per dare forza e sostanza a questa visione, i partiti sovranisti (Lega e 5Stelle su tutti) usano un trucco di marketing ben congeniato e che fa leva sulle emozioni e sulla nostalgia: paragonare situazioni del passato (ad esempio il periodo che va dalla metà degli anni 70 all’inizio degli anni 90) a quella attuale, mitizzando ed aumentando i pregi di quel periodo (quando eravamo tutti giovani e belli) e contrapporli alla realtà attuale, fatta di precariato e paura. Questa visione nostalgica fa leva su un certo tipo di elettorato, soprattutto nella fascia 45 – 60 (che tra Lega Nord e Movimento arriva quasi al 50% dei consensi) e che, in Italia, si presenta come numericamente rilevante: i babyboomers.

Il messaggio di fondo è più o meno questo: durante quegli anni dorati, l’Italia era un paese prospero e funzionale. L’istruzione era gratuita, la sanità ottima e gratuita, chiunque, anche se dotato di poche o nessuna competenza avrebbe potuto (e trovato) un lavoro che gli avrebbe consentito una vita dignitosa ed una pensione ad un’età ragionevole (45 anni?). Pensione che, in molti casi, sarebbe stata integrata con qualche lavoretto in nero, essendo particolarmente bassa dati i pochi anni di contributi. VICEVERSA, da quando invece siamo entrati in Europa, oltre ad avere meno certezze lavorative (goodbye  posto fisso), abbiamo dovuto necessariamente alzare i limiti dell’età pensionabile e moderare le spese (nota extra: mentre invece i politici continuano a mangiare e ad ingrassare sulle nostre spalle).

MA SARA’ VERO?

Le politiche che ho descritto sopra hanno portato, in Italia, alla crescita esponenziale del debito pubblico che passa tra il 1966 e il 1994 dal 60 al 120% (nonostante la crescita – fasulla nda – del PIL anche a 2 cifre in alcuni anni) con un rapporto deficit/PIL mediamente intorno al 10% (l’Europa impone non più del 3% con il Trattato di Maastricht). Crescita del debito che è stata accompagnata, parallelamente, da una crescita del peso della quota “spesa per il personale” (che passa da 32,2 a 50% (per PA) tra il 1960 ed il 1984)

Questo tipo di spesa  non crea ricchezza o infrastrutture, ma solo debito che si è riversato sulle generazioni successive (due validi esempi di queste politiche sono: le baby pensioni , per approfondimenti qui e qui, e la Cassa del Mezzogiorno per approfondimenti qui).

Qualcuno, soprattutto quelli più informati sulla questione debito pubblico/spesa pubblica, potrebbe storcere il naso e dire che in realtà la quantità dei dipendenti pubblici in Italia è mediamente inferiore, considerando le stime ufficiali*, rispetto alla media europea, anzi ci sono alcuni paesi (Francia e Gran Bretagna) che hanno numeri parecchio più elevati dei nostri (5,8 milioni in UK contro i 3,2 milioni dell’Italia). Questa indagine fu cavalcata all’epoca della spending review del 2012 da tutto l’arco costituzionale (e non).

Tuttavia l’indagine non riportava una serie di valori:

I 3,2 milioni sono solo quelli che hanno un contratto a tempo indeterminato, a cui vanno aggiunti

o   Personale con contratto a tempo determinato (80.413);

o   Personale suppletivo della scuola, tra cui professori universitari a contratto e i ricercatori assegnisti dell’Università (circa 20mila unità);

o   Dipendenti Camera, Senato, Corte Costituzionale, Quirinale (circa 4mila);

o   Consulenze esterne. La cifra condivisa è 300mila (con un costo pari a 1.390.430.276 euro) ma in realtà solo la metà delle amministrazioni pubbliche ha condiviso tale informazione che quindi potrebbe anche raddoppiare;

o   interinali (altri 8 mila);

o   LSU (lavori socialmente utili) (17 mila circa);

o   i lavoratori nelle partecipate statali (aziende di trasporti locali, aziende dell’acqua pubblica, partecipate comunali, ecc). L’ANCI parla di circa 4000 partecipate, ma secondo i dati dell’Irpa (Istituto di ricerca sulla pubblica amministrazione) sono di più (circa 6000).

o   Partecipate del Tesoro: Rai (13.299), l’Anas (100% del Tesoro) con 6357 dipendenti, di cui 2 mila dirigenti, Fs (100%) con 71.191 dipendenti, Posteitaliane Spa (100%) con 144 mila dipendenti, l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, meglio nota come Invitalia (100% pubblica), circa 1000 stipendi.

o   Partecipate dal ministero dell’Economia (Eni, Enel, Finmeccanica…),  altre migliaia e migliaia di persone. Stime dell’Istat parlano di 4186 aziende in cui la partecipazione pubblica supera il 50%, per un totale di 681 mila occupati

Per un totale di circa 6 MILIONI di pubblici dipendenti su 22 milioni di occupati. PIU’ di 1 su 4. Che producono spesa pubblica e debito, lavorando mediamente 35 ore a settimane.

SOLO SPESA PER IL PERSONALE?

Ovviamente no. Durante gli anni 80 e 90, un’altra parte cospicua di questa spesa pubblica era formata dagli interessi sul debito. Cosa sono gli interessi che l’Italia paga sul debito? Sono dei normalissimi tassi di interesse, che crescono o diminuiscono a seconda dell’affidabilità creditizia del “Sistema Italia”.

Il grafico sotto ci mostra come gli interessi sul debito nel 1990 pesavano per circa il 10% del PIL (il che significa che ci ritenevano davvero POCO affidabili), contro il 4,6% del 2009. Cos’è cambiato? Semplicemente il nostro debito adesso viene garantito ANCHE dall’UE e questo ci ha consentito di diminuire la spesa per gli interessi sul debito, senza aver realmente modificato i nostri fondamentali (le famose riforme). Cosa pensate succederà se e quando decideremo di uscire dall’Unione Europea?

 

 

IN CONCLUSIONE

La conclusione è più o meno questa. E’ chiaro che, viste le cifre, questi discorsi sulla responsabilità europea, sulla Germanocrazia e sulla sovranità siano errati. La responsabilità di questa situazione è nostra.

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