Governo
Renzi, Che fare?
Sono iniziate le grandi manovre all’interno del centro-sinistra italiano. Il 4 Dicembre ed il verdetto della corte costituzionale sull’Italicum hanno dischiuso il nuovo scenario che la politica nel suo complesso dovrà affrontare, probabilmente per un lungo ciclo temporale. Il progetto ulivista di modernizzazione delle istituzioni democratiche e di integrazione europea del Paese è fallito, sia elettoralmente sia storicamente. L’ascesa della Reazione Globale in tutto l’Occidente – da Trump alla Brexit, fino al partito della rivolta coagulatosi anche in Italia proprio nella sfida referendaria – sta lì a dimostrarlo. L’attore principale del centro-sinistra italiano, il Partito Democratico, esce disastrato da questa stagione (anche se i sondaggi sembrano dire altro…): débacle elettorale drammatica proprio sulla realizzazione di una delle tesi fondamentali de l’Ulivo e quindi della nascita stessa del Pd, con l’esplosione di un’ostilità al dir poco violenta da parte di giovani, emarginati, periferie e Mezzogiorno, amplificato tutto ciò dall’infernale meccanismo plebiscitario scattato nella contesa referendaria; parte della sinistra extra-pd che si appresta ad andare a congresso fondativo con tesi di assoluta distanza non solo rispetto un’alleanza con il partito immaginato da Romano Prodi, ma anche su temi dirimenti come la moneta unica; la guerra totale all’interno del Pd che sta arrivando ai suoi esiti finali, con la sempre più realistica scissione della minoranza ex-Ds.
Fuori da questo mondo c’è poi – inoltre – l’assalto al sistema Italia da parte dei concorrenti industriali europei, il revanscismo dei pro-austerity dentro le istituzioni comunitarie e l’assedio populista della nuova destra lepenista e del M5S. Uno scenario dunque da brividi. In cui torna alla ribalta la figura di Matteo Renzi. Infatti le dimissioni dal governo, la ricerca di una pax interna nel partito con il consenso a rimandare il congresso alla sua naturale scadenza e una pausa mediatica durata quasi 2 mesi, sembrano non essere bastati per svelenire il clima politico e sociale del Paese nei suoi confronti. Anche perché il ritorno in campo del segretario Pd è venato di contraddizioni. Agli spunti positivi sul tornare alla basi tramite il confronto con gli amministratori locali (vera struttura portante del partito), una guida che tenta di essere meno bonapartista e un accenno ad una vera riflessione sugli esiti – quindi sulle conseguenti scelte politiche e di policies – che la sconfitta referendaria porta in dote, corrispondono invece passi falsi come retroscena su una corsa furiosa al voto a tutti i costi, il continuare ad allisciare il pelo all’onda populista e qualunquista imperante nel Paese (l’sms mandato in diretta a Di Martedì su La7 sarebbe quasi da non commentare…), il farsi rappresentare come arroccato nelle poche ridotte di potere rimastegli quando, dopo un’inversione di 360°, sembra essere lui ora quello che non vuole più convocare un congresso necessario (o forse è proprio così? Potrebbero esserci degli indizi a riguardo…).
Perché il punto fondamentale di tutta l’intera discussione sta in definitiva qui: che fare, del Pd? Al netto infatti degli ormai ammessi errori personali, l’aver sottovalutato le questioni organizzative ed identitarie che il problema partito sollevava forse sono state il vero abbaglio compiuto da Matteo Renzi come premier-segretario. Il governo verticale della cosa pubblica ha dimostrato tutto i suoi limiti nella incapacità di articolare i risultati ottenuti nelle varie componenti della società italiana, generando invece un dissenso enorme e vario, che ha fatto imputare a Renzi – ed ai suoi 1000 giorni da Presidente del Consiglio – l’intera Grande Crisi economica che ormai viviamo dal 2008.
Dunque il partito così come ha funzionato fino ad ora non può più andare avanti. E’ diventato un problema, invece che un’opportunità. Ha perso la sua funzione e le sue prerogative, limitandosi a diventare un comitato elettorale permanente, se non – nella sua versione più deteriore – un’accozzaglia di cordate rinominate correnti. Per questo indire un congresso è necessario. Che non dovrà essere certo una conta tra i gruppi di potere in lotta tra loro, ma un grande appuntamento – dei veri e propri stati generali – sul futuro del Paese nel tempo della reazione globale. Andare al voto senza questo passaggio è da incoscienti, da avventurieri come ha suggerito qualcuno. Dove si dovrebbe decidere infatti che idea di governo dell’Italia propone il Pd? Con quali modalità garantisce una gestione corretta ed efficace di tale impegno? Come eliminare le condizioni di possibilità che hanno prodotto l’odierna guerra totale che dilania il partito? Quale battaglia finale giocare in Ue tentando di salvare il progetto comunitario? Su quale schema elettorale trovare un compromesso prima delle elezioni? Si può infatti votare con un sistema proporzionale senza chiarire al Paese che il futuro governo sarà frutto di larghe intese? A queste domande chi deve rispondere se non la mobilitazione di centinaia di migliaia di militanti e milioni di simpatizzanti? Bisogna attendere le risposte da un caminetto di cordate-correnti?
Qui si era già discusso di alcune proposte, ma forse ora è necessario focalizzarsi sulle tre da ritenere più decisive:
- Partito: gruppo dirigente plurale e competente. Fine del tesserificio e delle cordate-correnti. Circoli territoriali da programmare come avanguardie che siano in grado di connettere competenze diffuse con il protagonismo sociale di individui e comunità. Un modello è la proposta Barca. Modifica statutaria da proporre è l’elezione contemporanea del segretario-premier e del vice segretario-responsabile organizzativo, il quale ha l’obbligo di occuparsi specificatamente del funzionamento del partito senza poter assumere incarichi di governo.
- Legge elettorale: se non sarà possibile trovare un compromesso su meccanismi maggioritari per garantire la governabilità del Paese, adottare un sistema proporzionale alla tedesca. Chiarire quindi – con linguaggio di verità – la necessità di mettere i governi a disposizione di accordi politici post-elettorali, basati sul consenso che ogni partito o lista saprà raccogliere, azzerando così qualsiasi tipo di retorica sugli inciuci.
- Unione europea: risoluzione definitiva della questione tedesca. Non è più sostenibile la trazione germanocentrica delle istituzioni comunitarie. Compromesso finale su posizioni comuni della sinistra europea come quelle del candidato socialistica Hamon alle presidenziali francesi che in questi giorni hanno più eco anche grazie alla radicale chiarezza con le quali vengono espresse. O rottura totale, con il superamento degli attuali assetti (es. creazione di un nuovo euro e di una nuova banca centrale per i paesi mediterranei dell’Europa).
In questi nuovi tempi di rotture e rivoluzioni non è l’ora della moderazione, ma delle strategie profonde che possano riportare armonia e benessere nell’intero Occidente sconquassato dall’ascesa della reazione globale. Matteo Renzi se ancora vuole dimostrare di essere leader prospettico e vincente non può più scendere a compromessi su temi così importanti. Non per il suo destino politico, ma per il futuro del centro-sinistra in Italia. Sennò sarebbe meglio lasciare perdere e liberare il campo, il Paese non ha bisogno di rivincite personalistiche.
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