Governo
Referendum: gli italiani hanno “studiato”?
C’è chi ci crede e si sta impegnando, sia per il sì che per il no. C’è invece chi non ne può più e vorrebbe risvegliarsi direttamente il 5 dicembre, a cose fatte.
Gli italiani si avvicinano al 4 dicembre, la data del referendum costituzionale, travolti da un mix di sentimenti: entusiasmo, mal di pancia e indifferenza i più comuni. La votazione è sulla riforma costituzionale Renzi-Boschi (per quelli che sono sbarcati ora da Marte, eccone i contenuti spiegati in 90 secondi).
Non vogliamo addentrarci per l’ennesima volta sulle ragioni del sì o del no, ma vogliamo capire qualcos’altro di non meno importante: i cittadini si sono preparati all’appuntamento elettorale? Hanno “studiato”? Lo abbiamo chiesto a Diodato Pirone, giornalista del Messaggero, esperto in particolare di sondaggi e coautore del libro “L’Italia degli scioperi. Viaggio nel mondo dei servizi tra anarchia e speranze di cambiamento”, al quale io stessa ho collaborato. Pirone è favorevole al sì.
Siamo a pochi giorni dalla data del referendum: come giudichi questa campagna elettorale? Migliore o peggiore delle altre?
Le campagne elettorali sono tutte piuttosto insopportabili. Questa ruota intorno a una materia complessa come la Costituzione. Tale dato determina, sia nel fronte del Sì che in quello del No, strumenti di propaganda spesso grossolani. In queste ultime due settimane assisteremo allo sviluppo di polemiche grevi come quelle sulla Casta e sull’Autoritarismo che non hanno nulla a che fare con il nocciolo della riforma.
Non si tratta di un male solo italiano. Il neo-eletto presidente americano Donald Trump in campagna elettorale ha definito il suo predecessore Barack Obama e la sua avversaria Hillary Clinton come fondatore e cofondatrice dello Stato islamico.
Si può fare un confronto con l’analogo referendum del 2006 che bocciò la riforma costituzionale targata Berlusconi?
Quella riforma era nata morta e conteneva bizzarrie come il varo della polizia regionale, come se già non ne avessimo troppe. Nessuno ricorda quel referendum, mentre il prossimo – anche per motivi che esulano dal confronto interno, come le conseguenze per l’euro e l’aumento degli interessi sul debito italiano – lascerà un segno forte.
La riforma Renzi-Boschi è oggettivamente complessa e delicata: secondo te i cittadini si sono informati?
No. Ma non è colpa loro. L’Italia è uno dei paesi europei che sforna meno diplomati in percentuale alla popolazione residente. Attenzione: ho detto diplomati, non laureati. È evidente l’impreparazione dell’opinione pubblica di fronte a un tema complesso. Le lezioncine o le paginate che vedo in tv e sui giornali aggravano la situazione; ci vorrebbe un Piero Angela che spieghi al popolo con semplicità e chiarezza la posta tecnica in gioco.
Stai dicendo che il risultato del referendum potrebbe essere determinato dalla “ignoranza” del popolo?
Non metto in discussione l’esito giuridico del referendum qualunque esso sarà. Avverto però i fortissimi limiti di questo strumento che è adatto a offrire al popolo un’arma plebiscitaria su quesiti strategici e al tempo stesso semplici: monarchia o repubblica; divorzio o indissolubilità giuridica del matrimonio e così via. Sulle scelte oggettivamente complesse, come il giusto equilibrio dei poteri fra Stato e Regioni, dovrebbe agire solo il Parlamento.
Anche tu, quindi, ti schieri tra coloro che lamentano i limiti del suffragio universale?
Sì. Nella società della comunicazione il problema esiste e va affrontato. Anche qui vorrei essere chiaro: non mi sogno neanche lontanamente di mettere in discussione il diritto di ciascun individuo a esprimere il voto. Segnalo però l’esistenza di questioni complesse da esaminare con la profondità e la delicatezza che devono contraddistinguere le democrazie avanzate. Mettere la testa sotto il tappeto produrrà mostri.
Non starai esagerando? Il diritto di voto universale è una grande conquista della nostra civiltà.
Mi permetto di porti alcuni pezzettini di un caleidoscopio in formazione. Nei giorni scorsi Barack Obama ha sottolineato in una bellissima intervista al New Yorker che la circolazione eccessiva di menzogne e leggende metropolitane, favorite dai social network, sta distorcendo il confronto fra le persone e la formazione di una opinione pubblica consapevole. L’elezione di Trump appoggiato da soli 6 quotidiani su 300 ha messo in evidenza una distonia totale di parte della società americana con i mass media e una enorme discrepanza città/campagna che riporta ad analisi seppellite dal tempo firmate negli anni Cinquanta da un politico passato di moda: Mao Tse Tung.
Qualche settimana fa, Eugenio Scalfari ha ribadito che la democrazia non esiste senza oligarchie o, meglio, classi dirigenti, che si combattono/confrontano. Il popolo in questo quadro ha de facto l’unico diritto di stabilire quale oligarchia debba prevalere. Osservazione condivisibile.
Il problema è che in alcune situazioni non esistono più oligarchie che si confrontano. Per uscire dalla metafora, il caso delle elezioni comunali di Roma è esemplare: il popolo già dal 2008, quando fu battuta l’oligarchia rappresentata da Veltroni/Rutelli, sta votando sostanzialmente alla cieca. Col risultato dell’elezione nel 2016 di una sindaca/non-sindaca. Qualcuno ha capito quale idea di città abbia in testa Virginia Raggi se non una non-città? Ovvero una amministrazione che pubblicamente decide di non-fare e, quando decide di fare, si guarda bene dall’annunciarlo in streaming o altri canali di democrazia diretta o presunta tale.
Insomma, c’è qualcosa che non funziona nelle nostre democrazie molto al di là del referendum del 4 dicembre. Bisogna esserne consapevoli perché, a mio giudizio, e lo dico sottovoce, i vuoti di potere in passato sono stati risolti in modo cruento.
Torniamo al referendum. Molti voteranno “di pancia” cioè pro o contro Renzi: lo stesso premier ha personalizzato questa votazione.
Il referendum sarà essenzialmente un voto su Renzi ma anche sulla effettiva voglia degli italiani di “faticare” per cambiare le cose. Anche in passato ci sono stati voti sul cambiamento come quello per Silvio Berlusconi che prometteva un “nuovo miracolo italiano”. In quel caso però la società italiana intendeva delegare il nuovo “capo”. Era l’equivalente del più classico dei nostri stereotipi: armiamoci e partite.
Gli ultimi sondaggi disponibili – ricordiamo ai lettori che per legge è vietato pubblicarne di nuovi fino a 15 giorni prima del voto – davano in vantaggio il No. Sarà così? Questo tipo di indagine, che ha fallito tante volte, da ultimo non ha anticipato la vittoria di Trump: è ancora uno strumento utile?
Attenzione: tutti i sondaggi americani davano la Clinton in leggero vantaggio sul voto popolare ed effettivamente Hillary ha prevalso per oltre un milione di voti sul fronte della totalità dei consensi. Chi ha sbagliato sono stati gli esperti elettorali, nessuno dei quali ha dato la vittoria a Trump in Stati tradizionalmente democratici come il Wisconsin o il Michigan. Non era facile: in Michigan Trump ha prevalso per 11mila voti su 2,5 milioni.
Ma allora i sondaggi sono davvero utili per il referendum?
Nessuno sa se prevarrà il Sì o il No. È possibile che finisca come in Austria dove a decidere in passato è stato il voto postale dei cittadini residenti all’estero. Saranno sicuramente decisivi i 6/7 milioni di elettori indecisi che si formeranno un’opinione solo poco prima del 4 dicembre. Si calcola infine che il 5% di chi andrà a votare, quindi oltre un milione di persone, deciderà nella cabina elettorale.
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