Governo
L’ultimo Presidente della Prima Repubblica?
(Boomer alert: articolo ad alto tasso di riferimenti in bianco e nero, addirittura alla prima Repubblica, non leggetelo se vi informate solo su Twitter).
La prossima elezione del presidente della Repubblica coinciderà con il frangersi definitivo dell’onda lunga di Tangentopoli.
Mi spiego meglio, depurato dalle informazioni inutili e dai ballon d’essai, il processo di elezione del presidente della Repubblica in Italia ha sempre mostrato, anche nel passaggio delicato dalla prima alla seconda Repubblica, alcune rimarchevoli perduranze, legate innanzitutto al ruolo che l’inquilino del Quirinale è chiamato costituzionalmente a svolgere.
La principale perduranza riguarda le figure che alla fine una platea molto larga e sempre più o meno divisa di elettori sceglieva di premiare con sette anni alla guida dello Stato. Con forse l’eccezione di Giuseppe Saragat, comunque leader partigiano segretario di un partito minore, nessun presidente della Repubblica è mai stato un leader politico di primissimo piano. La logica non è complessa, da che anche una partita di calcetto non viene mai fatta arbitrare dal bomber, ma da qualcuno che dà meno fastidio e può svolgere il ruolo senza, almeno sulla carta, eccessivi protagonismi e, ancor di più, senza aver nelle partite precedenti e fatto arrabbiare troppe persone per troppo tempo.
La legge delle buone figura di secondo piano e si è applicata invariabilmente a tutte le presidenze politiche (ossia fino a oggi a tutte le presidenze con l’eccezione di Ciampi). Solo l’americanismo d’accatto che, proprio nel momento in cui il modello americano è più in crisi, ha preso gli osservatori nostrani delle cose politiche, può non serbare memoria di questa regola, che porterebbe ad esempio a escludere quelle figure, in primis Berlusconi (oltre ai macigni anagrafici, politici e morali che l’uomo presenta), che hanno tanto contato ma anche tanto diviso l’opinione pubblica e parlamento. Lo hanno sperimentato tra gli altri Giulio Andreotti, Arnaldo Forlani e Romano Prodi.
Nell’eleggere un presidente della Repubblica la logica che ha sempre contato di più è stata quella di fare monarca non il principe ma un ottimo valvassore. E qui arriva il tema Tangentopoli: la decapitazione di quella classe politica e la sostituzione dei suoi meccanismi di selezione della classe dirigente con qualcosa che ancora non è chiaro cosa sia, ha decapitato esattamente quella classe di valvassori che avrebbe oggi consentito una scelta competitiva tra i candidati.
Mancano persone che senza essere travolte dalla magistratura e/o dalle strambate del consenso popolare abbiano condotto un’onesta carriera ai vertici ma sotto il vertice della politica tale da renderli in tarda età materia da Quirinale. Mancano soprattutto queste figure nella fascia di età tra i 65 e gli 80 anni, ossia proprio quella classe dirigente spazzata via da Mani pulite.
Nella precedente lezione, che con Sergio Mattarella ancora una volta totalmente confermato il teorema dei valvassori, c’era ancora qualche credibile esponente della prima Repubblica sopravvissuto alle purghe della magistratura.
Oggi, tranne due papabili come Casini e Franceschini non per niente nomi “veri” e molto forti, sono quasi tutti troppo vecchi o troppo fuori dal giro, al punto che si ritiene credibile l’elezione di ultraottantenni come Berlusconi e l’inossidabile Amato. Quando penso a qualcuno che avrebbe potuto ragionevolmente ambire a quel ruolo ma è stato bruciato da Tangentopoli penso a Claudio Martelli, ma anche a Massimo D’Alema, se non fosse finito nella selva oscura per lui della liquefazione dei partiti.
Tutto quello che è venuto dopo è così basato sul just in time e sulla tattica da rendere la maturazione lentissima e naturale di un candidabile al Quirinale a qualcosa di sostanzialmente ingestibile. Era già questa probabilmente la ragione della proroga di un Napolitano (anch’egli valente colonnello dell’esercito comunista, mai generale), nonché della solidità dell’ipotesi “ci pensiamo dopo” della rielezione di Mattarella.
Il centro destra, che a ragione rivendica in questo parlamento la forza dei numeri maggioritari, è il primo a pagare il mancato investimento in una classe dirigente con un minimo di prospettiva di durata. Oggi, l’avere spinto al massimo sulla breve durata, la personalizzazione della leadership, e l’accompagnamento degli istinti anarcoidi dell’elettorato, rende questa parte maggioritaria del nostro mercato politico paradossalmente non in grado di esprimere nomi credibili per eleggere una figura che per sette anni (un tempo che a ritmo presente della politica sembra fantascienza) darà le carte e lo dovrà fare interloquendo seriamente e con responsabilità con maggioranze che nel futuro potranno essere molto diverse.
La fine del vivaio degli anziani leader che possono diventare presidenti della Repubblica cambierà il ruolo?
In parte l’instabilità costante del sistema dei partiti lo ha già cambiato, e le ultime presidenze sono state ben più interventiste delle precedenti. In politica i vuoti si riempiono sempre e, laddove gli eletti non decidono, decidono quelli che non hanno più bisogno di essere eletti. Se poi facciamo un gioco di futurologia e guardiamo a chi attualmente in Parlamento potrebbe tra altri sette anni aspirare a salire sul Colle, ci rendiamo facilmente conto che buona parte degli attuali membri del Parlamento non sa cosa farà tra due anni, figuriamoci oltre.
Venendo progressivamente meno gli arbitri, è probabile che ruolo cambierà, innanzitutto prevedendo delle forme di elezione diretta, che mi aspettavo fosse evocata con maggiore forza già da ora, avendo a disposizione la carta Draghi. Rispetto all’attuale presidente del Consiglio, la sua elezione sarebbe una riedizione del modello Ciampi e non è un caso che ambedue vengano da una delle poche riserve dello Stato che hanno più o meno resistito ad ogni furia razionalizzatrice.
Che morale ha questa storia, oltre ovviamente a quella del si stava meglio prima?
Personalmente credo che ce ne siano due, la prima da storico e anziano riguarda la memoria come strumento non solo di intrattenimento per vecchi ma anche come elemento necessario per distinguere le cose plausibili da quelle implausibili, soprattutto in un momento nel quale il dibattito pubblico è particolarmente inquinato da fesserie spacciate prese per vere. La seconda, altrettanto rilevante, è che la distruzione di qualunque sistema politico e soprattutto la sua ricostruzione con la mano sinistra non portano quasi mai bene, soprattutto quando sia a che fare con ruoli e di eventi di grande complessità. È bene ricordarsene, oggi sfogliando le notizie e soprattutto quando si andrà a votare.
Soprattutto, speriamo che i momenti di passaggio non producano quei disastri di cui parla Gramsci propinandoci un Presidente da talk show. Che poi tocca tenercelo.
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