Governo

Quando il Boss non telefona più

8 Gennaio 2021

Se questo fosse l’inizio di una puntata di “Profondo Nero” la voce incisiva e pacata di Carlo Lucarelli ci racconterebbe di quattro uomini seduti in uno splendido ufficio di via Arenula nel centro di Roma. I loro nomi sono: Giuseppe Ayala, Francesco e Massimo Macrì e Giampaolo Santi. Il primo è il Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia, è stato Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo, collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per molti anni, nonché Consigliere di Cassazione. Il secondo è un elettrotecnico spoletino, titolare di un piccolo negozio che ha intuito qualcosa di grande. Fin da bambino ha smontato con passione radio e affini. Da giovanissimo ha iniziato a ripa- rare radio antenne e radio hi-fi e dopo anni di praticantato ha aperto a Spoleto un’attività di riparazioni elettroniche insieme al socio Giampaolo Santi anche lui presente all’incontro con Massimo, fratello di Francesco. Questo incontro è stato reso possibile da un amico di lunga data di Francesco Macrì, l’onorevole Pier Luigi Castellani del Partito Popolare e sottosegretario al Ministero delle Finanze. Siamo nel 1998.

I tre spoletini non sanno che durante questo colloquio i vigili urbani della capitale stanno mettendo le ganasce alla loro auto, incautamente parcheggiata in via Arenula, ma va bene così, per la causa si può bene pagare anche una multa.

Ma di quale causa parliamo? È quella di cui scriveremo in questo libro, la diffusione di un marchingegno chiamato “jammer”. Al momento accontentiamoci di questa sintesi estrema: il jammer è un dispositivo elettronico in grado di disturbare un altro dispositivo elettronico.

Torniamo allo studio di via Arenula, Ayala riceve i tre uomini intimiditi e speranzosi. Dopo i primi convenevoli il sottosegretario racconta ai suoi interlocutori che Giovanni Falcone era rimasto sconvolto dopo lo sventato attentato dell’Addaura dove un pacco esplosivo posto sugli scogli era pronto ad esplodere grazie ad un comando azionato a distanza da alcuni uomini su un motoscafo. Solo la prontezza della scorta aveva evitato il peggio e Falcone durante un viaggio negli Stati Uniti dove si recava di frequente per interrogare il pentito Buscetta, aveva chiesto agli uomini dell’FBI: “Ragazzi io rischio costantemente la vita a causa di questi ordigni, ma c’è qualcosa che possa salvaguardarmi?” la risposta fu chiara: “Dottor Falcone noi da anni usiamo sistemi Jammer che la salverebbero da simili attentati” così Falcone promise che una volta rientrato in Italia ne avrebbe parlato con l’ufficio addetto presso il Ministero degli Interni, responsabile della sicurezza tecnica e logistica dei giudici. Giovanni Falcone fece presente l’esistenza di questi apparati ma gli fu risposto che i jammer provocano danni ai portatori di peace maker, ossia se il convoglio del giudice fosse passato a vicino ad uno di loro, c’era il pericolo che si potesse bloccare il loro apparecchio e un uomo dal grande profilo umano come Giovanni Falcone rispose: “ah no no se devo fare danno ad altri preferisco morire”.

L’incontro con Ayala finì senza promesse né accordi ma lasciò dentro Francesco Macrì delle domande ai quali cercò disperatamente di rispondere negli anni a venire per arrivare alle risposte contenute in questo libro. Si chiese innanzitutto quanti portatori di peace maker aveva incontrato Falcone nel suo ultimo viaggio da punta Raisi a Capaci e si dette una risposta dettata dal buon senso: molto probabilmente nessuno. Ma fece di più, una volta tornato a casa chiese ai maggiori produttori di sistemi jammer nel mondo, gli israeliani, nello specifico l’azienda Net line, se davvero questa tecnologia poteva realmente compromettere la salute di alcuni passanti. Gli israeliani estremamente competenti in materia, essendo una delle popolazioni più soggette al rischio di saltare in aria, risero. Da oltre quarant’anni facevano uso di determinate tecnologie assicurandosi che i jammer installati sulle auto avessero delle protezioni a livello elettromagnetico affinché non procurassero danni fisici ai portatori di peace maker. Macrì voleva certezze sulla sicurezza dei passanti, perché credeva nell’apparecchio che andava presentando da mesi alle istituzioni per evitare nuove stragi, impedire comunicazioni criminali e dare una svolta alla sua attività.

 

Arriviamo ai giorni nostri al luglio del 2019 quando ho conosciuto Francesco Macrì dopo un breve contatto su Facebook e dove a grandi linee mi ha raccontato la sua vicenda. La sua storia mi ha colpito e ci siamo dati appuntamento per il martedì della settimana successiva all’uscita Valdichiana, della A1. Francesco Macrì mi racconta che è nato a Spoleto il 25 marzo del 1962. Nessun laurea o curriculum di rilievo, ma tanta esperienza sul campo, da riparatore di radio antenne e gestore di assistenza tecnica di marchi importanti della sua zona fino a diventare radio tecnico elettronico presso il supercarcere di Spoleto, una delle strutture più importanti a livello nazionale con una area che ospita detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Proprio da questo suo ultimo incarico nasce tutta la storia quando nel maggio del 1996, una ditta del nord presenta al carcere di Spoleto, un apparecchio in grado di inibire la telefonia mobile, tutte le trasmissioni radiomobili e porre uno scudo elettromagnetico. Con questa barriera i detenuti speciali quelli in regime di 41 bis, per lo più appartenenti alla criminalità organizzata, non avrebbero più avuto la possibilità di comunicare con l’esterno tramite i cellulari.

Macrì si interessò subito a questa tecnologia introdotta dall’ azienda “Friuli” che effettuò un primo test all’interno del carcere, lasciato cadere poi nel vuoto dalle istituzioni competenti. Questo disinteresse per Macrì fu un’occasione da cogliere al volo. Nel tentativo di sostituirsi all’azienda friulana iniziò a ricercare un’azienda in grado di supportarlo e si mise in contatto con la migliore del settore: la Net Line con sede a Tel Aviv. Cominciò a chiedere più informazioni possibili: storico, dettagli, schede tecniche, finché fu veramente convinto della valenza sociale del prodotto e della sua appetibilità commerciale, tanto che lo acquistò lui stesso al prezzo di 900mila lire.

I jammer che gli israeliani gli confezionarono per la commercializzazione in Italia erano predisposti per inibire specifiche frequenze, cioè le frequenze di radio comandi per gli aeroplanini da modellismo, poiché consentono una distanza di trasmissione maggiore rispetto ad altre frequenze, oltre una buona propagazione capace di superare eventuali ostacoli. Le stesse frequenze usate dalla criminalità per uccidere i nemici, quelle in cui si inserì Giovanni Brusca per far esplodere l’ordigno che avrebbe ucciso Falcone da un chilometro e mezzo di distanza.

Il jammer sponsorizzato da Macrì conteneva tutte le misure necessarie per non nuocere ad alcuno, accorgimenti che propose ai massimi livelli istituzionali e di cui a suo tempo avrebbe potuto usufruire anche il giudice Falcone al costo non proibitivo di sei milioni di lire. Sarebbe stato sufficiente informarsi come aveva fatto Macrì, al momento in cui Falcone aveva fatto presente questa possibilità, ma nessuno si era mosso in tal senso.

Quando ho chiesto a Francesco Macrì come poteva essere così sicuro della sicurezza dei jammer che voleva introdurre, mi ha risposto confessandomi una verità che al tempo poteva solo rivelare ai vertici delle istituzioni. Ebbene, i suoi jammer erano stati prodotti seguendo le indicazioni del servizio segreto israeliano.  Il costruttore israeliano aveva attinto informazioni dal Mossa che aveva indicato frequenze precise sulle quali venivano usati i telecomandi. “Solo in Italia ancora muoiono magistrati con ordigni esplosivi co- mandati a distanza” dissero gli israeliani a Macrì e queste parole lo sconvolsero perché ricordò quel maledetto 1992 e la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

L’attentato di Capaci era stato pianificato nei minimi dettagli. Mentre il giudice Falcone percorreva la A29 in direzione di Capaci veniva segui- to da una macchina che viaggiava su una strada parallela. All’interno di quest’auto i corleonesi comunicavano ogni spostamento con il cellulare a Giovanni Brusca, il quale dalla collina di Capaci munito di binocolo e telecomando, era pronto a far esplodere l’ordigno. Francesco Macrì sape- va che se la macchina di Falcone fosse stata dotata di un jammer sarebbe stata schermata per un raggio di oltre un chilometro e si sarebbero potute bloccare tutte le telecomunicazioni elettromagnetiche, i telefoni cellulari e altre radiofrequenze e naturalmente telecomandi collegati via radio per l’innesco dell’ordigno. I mafiosi non avrebbero potuto comunicare tra loro, un dialogo come sappiamo fondamentale per la riuscita della strage. Falcone si sarebbe salvato, almeno in quell’occasione.

Questa riflessione lo indusse a contattare la Procura di Palermo guidata al tempo da Giancarlo Caselli. Macrì inviò un fax alla Procura la sera del 14 maggio dopo aver chiuso la cassa, in totale solitudine, sicuro che avrebbe dovuto aspettare del tempo prima di avere una risposta, se mai fosse arrivata. Si sbagliava. Il giorno dopo arrivò la telefonata della Procura e venne convocato. Pochi giorni, il tempo di organizzarsi e Macrì con il padre e il fratello raggiunse Palermo. Gli anni erano quelli a ridosso della morte di Falcone e Borsellino, il livello di attenzione e rischio erano altissimi. e la procura era blindata. Il clima era pesante come l’aria prima di un temporale. Quando furono ricevuti nell’ala bunker del tribunale Macrì non parlò con Caselli ma con il giudice Alfonso Sabella e spiegò la funzionalità di queste strumentazioni per salvaguardare gli istituti penitenziari. Sabella comprese l’importanza di quanto gli veniva proposto e formulò una domanda importantissima: “Signor Macrì questi jammer potrebbero bloccare i radiocomandi degli ordigni? La risposta fu affermativa e a quel punto il dott. Sabella cambiò atteggiamento ed espressione. Fu chiaro in un momento, che la vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si sarebbero potute salvare.

Intuito questo, Sabella telefonò subito ad un signore che all’epoca era il questore di Palermo, Antonio Manganelli. La famiglia Macrì seguì in diretta la conversazione. Queste le parole di Sabella: “Scusami Antonio io ho qui il signor Francesco Macrì che mi ha parlato di un jammer ma tu queste minchia di tecnologie le conosci o non le conosci?” L’altro rispose: “Certamente le conosciamo dottore, pensi che per catturare un famoso latitante abbiamo scollegato il ponte Telecom per inibire le comunicazioni tra il latitante e le sentinelle che comunicano con il ricercato e lo fanno sparire e abbiamo ricevuto le proteste sentite dell’azienda. Se avessimo avuto un jammer non avremmo avuto questi problemi”.

Dopo questa telefonata il nostro protagonista si rese conto di aver messo il dito nella piaga. Durante quel primo incontro Alfonso Sabella informò Macrì che da lì a poco lui e Caselli avrebbero lasciato la Procura di Palermo per andare a dirigere il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a Roma e a maggior ragione avrebbero avuto modo di intra- prendere questa collaborazione. Nei giorni successivi Macrì instaurò con il futuro capo della polizia Antonio Manganelli un rapporto di collabo- razione e amicizia perché Manganelli si rivelò una persona squisita da un punto di vista umano e professionale.

Questo incontro alla procura di Palermo lo possiamo definire la pietra miliare di questa storia. L’interesse da parte delle istituzioni dette l’avvio al pellegrinaggio di Macrì con le sue innumerevoli visite al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dove incontrò alti funzionari quali il dottor Suraci, e l’allora ispettore Fabio Gallo con i quali si confrontò più volte.

Racconta Macrì: “La trattativa andò avanti per almeno due anni: incontri, riunioni, test, preventivi, modifiche fino a quando l’allora ispettore Gallo, mi comunicò che non era più loro intenzione “bloccare” semplicemente le comunicazioni dei criminali con l’esterno, ma creare degli impianti atti ad intercettare cella per cella tutte le telefonate, e svolgere quindi un servizio di investigazione e non più di repressione delle comunicazioni. La cosa strana, a mio modesto parere, che il problema insormontabile erano i costi di questi impianti, viste le scarse risorse del Dipartimento, parliamo di jammer atti semplicemente a bloccare tutti i telefoni malcapitati fra le mani dei detenuti e stavamo parlando di cifre sostenibili, 50/60 milioni di lire a sezione. Ma, quando mi fu comunicato che in realtà era loro intenzione acquistare tecnologie sofisticate che avrebbero dovuto bloccare ma anche intercettare, allora qualcosa non mi tornò, ma come, non avevano i soldi per comprare “semplici” jammer, per pochi spiccioli ed ora volevano una tecnologia che costava almeno quattro volte tanto e forse anche di più?”

L’epilogo fu quello che Macrì aveva previsto, Gallo pose fine agli indugi con la litania che blocca molti possibili investimenti italiani: in quel momento il dipartimento non era in grado di effettuare nessun investi- mento economico. Di quel colloquio a Macrì è rimasto impresso come gli occhi dell’ispettore dicessero tutt’altra cosa, ma ahimè le parole fornivano invece la versione ufficiale da accettare con buona pace. Non c’erano i soldi.

Passano altri tre anni, siamo al 1999 Macrì si è arreso. Capisce che si trova davanti a più muri di gomma, e prende atto di essersi troppo allontanato dal suo negozio. Si sente come un ragazzino che ha inseguito le farfalle. Nella continua ricerca di interfacciarsi con le istituzioni si è dimenticato gli aspetti quotidiani e reali della sua piccola azienda per finire in passivo e dover chiudere la sua attività.

 

Capitolo 1

Quando il Boss non telefona, Autrice Valentina Roselli  edizioni   Alpes

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