Governo

Pubblicità ingannevole

23 Settembre 2016

Sulla scheda elettorale che (prima o poi) ci verrà consegnata per votare al referendum costituzionale dovrebbe esserci un disclaimer simile a quelli che usano i venditori on-line: “l’immagine è indicativa del prodotto e potrebbe non corrispondere in ogni suo dettaglio“; infatti, il confronto tra quanto annunciato nel quesito referendario e i contenuti effettivi della riforma potrebbe causare una certa delusione a chi si lasciasse ammaliare dal geniale marketing dei consulenti di Palazzo Chigi. Vediamo perché.

Il “superamento del bicameralismo paritario” è una frase bellissima, soprattutto per quella parola – “superamento” – che ispira un’idea di slancio e di progresso; ma la realtà è molto meno scintillante. Se la riforma entrerà in vigore, il bicameralismo perfetto rimarrà tale e quale su una serie di leggi (quelle costituzionali, elettorali, di ordinamento, sui rapporti con la UE); su tutte le altre, approvate dalla Camera, il Senato potrà suggerire modifiche che la  stessa Camera sarà obbligata a valutare e ad approvare o respingere, con un nuovo voto: tre passaggi al posto di due, insomma.  E’ vero che il Senato avrà al massimo 40 giorni per esprimersi, ma ciò non garantisce che le leggi saranno approvate velocemente: dipenderà da cosa fa la Camera, che non ha alcun termine perentorio per l’approvazione definitiva (per cui, se lo ritiene, potrà tenere la legge nel cassetto a tempo indefinito, esattamente come è accaduto in questa legislatura alla legge sull’omofobia). Il Senato non darà più la fiducia al governo (che quindi non potrà più metterla per accelerare l’iter delle leggi bicamerali in questo ramo del Parlamento), ma tutta l’attività legislativa sarà in capo alla Camera dei Deputati (che dovrà esaminare per prima – e quasi sempre per ultima – tutte le leggi, anche quelle di iniziativa dei senatori), con un alto rischio di “ingolfamento”: siamo davvero sicuri che tutto ciò sia più funzionale rispetto all’assetto attuale?

La “riduzione del numero dei parlamentari” è un abile infiocchettamento di una realtà abbastanza deludente: sarebbe stato più onesto scrivere “riduzione del numero dei senatori” (visto che i membri della Camera rimangono 630 come oggi) e magari aggiungerci un “modesta”, dato che si passerà dagli attuali 315 a circa 100 (il “circa” è dovuto al numero, non noto a priori, dei senatori a vita e degli ex presidenti che saranno in carica). I venditori porta-a-porta della riforma vi faranno notare che quei 100 saranno in realtà sindaci e consiglieri regionali e non “solo” senatori: doppiolavoristi, insomma, che svolgeranno le loro due attività in due luoghi diversi (ad eccezione dei laziali). Di nuovo: siamo sicuri che sia una scelta razionale? Piuttosto che avere un Senato part time e disfunzionale, non sarebbe stato meglio abolirlo del tutto?

“Ah, il solito benaltrismo: intanto questa riforma serve al contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni“. Anche qui, i risparmi rischiano di essere ben inferiori a quanto viene raccontato: i cento senatori non riceveranno alcuna indennità (se non quella da sindaco o da consigliere regionale), ma di sicuro avranno un rimborso per le spese di trasferta e per l’esercizio del mandato (per la differenza tra indennità e rimborsi si veda qui). La riforma prevede (nelle “disposizioni finali”) l’ “integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari“, ma sarà da vedere quanti risparmi effettivi si potranno ottenere per questa via…  mentre è probabile che dall'”abolizione delle province” non conseguirà alcun “contenimento di spesa”, dato che la suddetta “abolizione” è solo formale (le province non saranno più citate nella Costituzione, ma continueranno a esistere come enti di secondo livello, secondo quanto previsto dalla riforma Delrio già in vigore). Infine, il divieto di corrispondere “rimborsi o analoghi trasferimenti monetari” ai gruppi consiliari regionali porterà a risparmi non stratosferici (circa 30 milioni di euro) mentre il previsto “tetto” agli stipendi degli amministratori regionali (pari allo stipendio del sindaco del Comune capoluogo di Regione) poteva essere fissato con legge ordinaria.

Della “soppressione del Cnel” colpisce soprattutto il cruento vocabolo scelto (che evoca il plotone di esecuzione); ma il sacrificio di questo capro espiatorio cambierà poco nella voragine di spesa degli enti inutili italiani: solo 20 milioni l’anno.

La “revisione del titolo V della parte II della Costituzione” è invece un capolavoro di vaghezza in puro burocratese, fatto per indurre l’elettore meno smaliziato a trascurare quello che è il vero nucleo della riforma: una micidiale ri-centralizzazione delle competenze legislative dello Stato sulle Regioni e la potenziale cancellazione dell’autonomia tributaria degli enti locali (solo le Regioni a Statuto Speciale non vengono toccate, cosa su cui ci sarebbe parecchio da discutere…). Basta leggere l’art.117 della versione “novellata” della Costituzione per accorgersi che su quasi tutte le materie sarà lo Stato a legiferare, senza alcuna “concorrenza” delle Regioni: le quali potranno vedersi “scavalcate” anche sulle poche materie di loro competenza esclusiva, grazie alla cosiddetta “clausola di supremazia” che il governo potrà far valere in nome dell’ “interesse nazionale” (cioè quando gli pare) e alla quale il Senato potrà opporsi solo a maggioranza assoluta dei suoi membri. Non solo: in base al nuovo art.119, Regioni e Comuni potranno imporre tributi “secondo quanto disposto dalla legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario” (e non più “secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”), cioè sarà il governo a “disporre” delle tasse locali; infine (art.120), sindaci e presidenti di Regione potranno essere “esclusi dalle rispettive funzioni” (cioè silurati) “quando è stato accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell’ente“. Va bene che è già da tempo tramontata l’ubriacatura federalista dei tempi di Bossi, ma così è un po’ troppo… o no?

Già da qualche tempo il Presidente Renzi e i suoi sodali, quando intervengono a un dibattito sulla riforma, invitano i cittadini a votare “sì” sulla base di ciò che è scritto nel quesito referendario: che è un po’ come scegliere un prodotto giudicandolo dal suo imballaggio. Io ho provato a scartarlo e a mostrare cosa c’è dentro al pacco: invito tutti a fare altrettanto, per non doversi pentire in seguito della scelta fatta. In questo caso, il “soddisfatti o rimborsati” non è previsto…

 

 

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