Governo
Proposte per il governo che verrà
Perché la politica in Italia sta fallendo? Aristotele nella Politica sosteneva che l’efficacia di uno Stato si misura dal grado di felicità dei suoi cittadini: “costituito per rendere possibile la vita, lo Stato in realtà ha come finalità quella di rendere possibile una vita felice”. E tale obiettivo si può raggiungere, precisava il filosofo greco, solo se chi governa si impegna a operare in nome del bene comune: “quando l’uno o i pochi governano per il bene comune, queste costituzioni necessariamente sono rette, mentre quelle che badano all’interesse di uno solo o dei pochi o della massa, sono deviazioni”.
La nota dolens oggi è questa: il bene comune non è più la meta dell’agire politico; chi detiene il potere tutela interessi di parte, della parte che rappresenta o, peggio, di un macrosistema economico che come un Panopticon controlla e dirige le politiche globali in modo unidirezionale per perpetuare la propria ombra, strumentalizzando gli stessi rappresentanti politici dei singoli Stati, che accettano di essere emissari e attuatori di un monolitica prospettiva totalizzante e pervasiva: il realismo capitalista.
Quale può mai essere la “ragion sufficiente” in grado di spiegare i persistenti inamovibili – o presunti tali – effetti di umilianti sperequazioni sociali, diffusa povertà, assenza di futuro per giovani costretti a emigrare per tentare strade possibili, snervante burocratizzazione della vita, disintermediazione tecnologica che nutre illusioni di libertà e consegna, invece, le vite di tutti al controllo assoluto di poteri a loro volta, invece, incontrollabili?
Non c’è. Non esiste una “ragion sufficiente” capace di dimostrare che questo è il migliore dei mondi possibili: il modello TINA (acronimo per il thachteriano There Is No Alternative), quello che ci fa accettare il male minore nella assurda convinzione che non ci siano alternative o che qualunque assetto diverso rispetto allo status quo sarebbe peggiore, è una follia di cui si serve il potere assoluto di uno sfrenato e prepotente neoliberismo.
Gramsci sosteneva che una classe politica per non fallire deve essere dotata di FANTASIA. Mai nessuno ha elevato la fantasia a categoria politica. Invece, un intellettuale come Gramsci che ben conosceva il fascismo, l’annichilimento, la cesura delle speranze, vede la salvezza possibile solo nella forza della fantasia. Si tratta di una categoria diversa dall’immaginazione e anche dall’utopia. Si tratta di una qualità raffinata che nasce dall’empatia.
Io riesco a immaginare solo ciò che già conosco e di cui avverto la mancanza (se ho fame immagino un cibo succulento; se ho sonno, un letto per dormire). L’utopia è bella, ma rischia di staccarmi dalla realtà, con cui necessariamente, invece, devo fare i conti se non mi rende felice, se capisco che fa soffrire molti e se, perciò, voglio cambiarla.
Ecco che allora entra in gioco la FANTASIA: i politici devono possederla in grande quantità, devono essere in grado di figurarsi i bisogni, le speranze, le aspettative della gente, devono sentirle su di sé, devono portarne addosso il carico e sforzarsi di dare corpo a tali istanze. G. Benedetti e D. Coccoli osservano che per Gramsci la fantasia è una particolare forma di sensibilità, “è una qualità fondamentale in politica ed è ciò che la rende umana, concreta, partecipe alle aspettative degli esseri umani”. La fantasia gramsciana non è affatto il sogno donchisciottesco, anacronistico e fuori dal mondo, è, piuttosto, la coraggiosa volontà di essere espressione dell’umanità, di agire nel mondo e per il mondo, per il bene comune.
Agli avventurieri della politica questo va detto: non si cambia la società lastricando la strada di macerie, frutto di rottamazioni di varia natura. Il passato, la tradizione, l’insegnamento dei classici, le conquiste della storia, ciò che l’uomo ha fatto nel corso del tempo sono un patrimonio necessario a capire il presente e ad alimentare la costruzione del futuro.
Alla luce delle riflessioni svolte possono seguire, dunque, alcune proposte per il nuovo governo. Si tratta di indicazioni di metodo: per i contenuti il nuovo esecutivo dovrà studiare la storia, l’economia, formarsi una concreta idea di Stato, un’idea di umanità, una visione esistenziale, una preparazione filosofica, insomma, bisognerà recuperare quella cultura così poco citata nei programmi politici propagandati. E non basterà certo avvalersi dell’aiuto di esperti: se i nuovi ministri non “sentiranno” gramscianamente le speranze e le esigenze di un’intera società, sarà difficile procedere.
Per la scuola
Nell’opacità linguistica della Buona Scuola si annida un’ambiguità contenutistica strumentale ad una sola logica: fare della scuola il nuovo indotto dell’economia e curvarla esclusivamente alle esigenze della cultura capitalistica.
Questo intento si evince chiaramente se si considera la formazione culturale dei consulenti del Ministero dell’Istruzione. I curricula pubblicati on line dimostrano che i titoli di studio in loro possesso sono i seguenti: laurea in Scienze internazionali e diplomatiche, Giurisprudenza, Economia; i master o i dottorati da loro conseguiti sono in Diritto delle Tecnologie informatiche, Management in the Network Economy, Sociologia dei Nuovi Media.
Certo, per chi lavora nel mondo della scuola non si tratta di una novità, ma per i non addetti ai lavori bisogna pur sottolineare che c’è qualche nota stonata: che rapporto c’è tra scuola ed economia?
Fa specie dover constatare che nessuno degli esperti cooptati dal MIUR ha una formazione specifica in pedagogia, psicologia, scienze della formazione; nessuna delle persone coinvolte nella progettazione della riforma scolastica sfociata poi nella legge 107/2015, ha svolto esperienze professionali nel mondo della scuola, nessuno di loro conosce gli enigmi della comunicazione didattica e sa di quanta fatica intellettuale – e a volte anche fisica – grondi l’adozione di metodologie che nascono da tentativi falliti, sperimentazioni sul campo, successi laboriosamente raggiunti, studio continuo delle scienze dell’educazione e della didattica applicata alle discipline di insegnamento. Nessuno di questi giovani economisti o giurisperiti sa – semplicemente perché non l’ha mai provato, per diversità di percorsi culturali – che insegnare è molto di più che comunicare carismaticamente dati e fatti con slogan ad effetto o caricare qualche slide su una LIM.
Il punto è solo questo: perché affidare un incarico delicato come la riforma della scuola a chi della scuola ignora tutto (e non è un demerito, ma solo un dato)?
È questo che è mancato allo spirito della Buona Scuola: il senso del limite.
Un letterato o un pedagogista oserebbero mai spiegare a un chirurgo come eseguire una laparoscopia o ad un economista come risolvere la crisi globale? Probabilmente un po’ di umanesimo in più gioverebbe, ma in ogni caso, ne sutor ultra crepidam!
Certo, però, non basta proclamare di voler smantellare la Buona Scuola solo per marcare una differenza con il governo precedente. Le ambiguità semantiche affette da veterogattopardismo sono molto chiare a chi legge tra le righe il palese giochino di chi, apprestandosi ad assumere l’incarico di governo, è pronto a cambiare solo qualche nome agli improvvidi interventi previsti dalla 107/2015, per conservare, invece, nei fatti, l’impianto generale di una legge che non può avere correttivi: va solo eliminata.
Per il lavoro
Introdurre il Jobs Act e rimuovere l’articolo 18 non è stata un’innovazione, ma piuttosto determinato la reintroduzione di nuove forme di sudditanza che azzerano le conquiste sindacali: per chi scrive e vive nella terra di Giuseppe Di Vittorio pane e lavoro non è certo uno slogan, è una fede.
Per l’accoglienza
Accogliere non è sinonimo di ammassare gli stranieri. Bisogna farsi carico di tutelare sempre la loro dignità umana. Oggi le politiche di accoglienza equivalgono a nuovi orizzonti di sfruttamento, a nuove forme di schiavitù. Chi scrive conosce la realtà del centro di Borgo Mezzanone (Fg). Creare nuovi ghetti non è una soluzione. Per l’Europa che ha partorito l’Illuminismo e gli ideali di uguaglianza, libertà, fraternità, si tratta di un inaccettabile ritorno al peggiore passato. E non vale certo il principio “aiutiamoli a casa loro”: chi scappa dalla guerra, dalla fame, dalla povertà, una casa non ce l’ha più.
Ci sarebbe molto altro su cui riflettere, a cominciare dalla mistificante grammatica di base del linguaggio politico del nuovo ceto dirigente, che chiama ROUSSEAU una piattaforma digitale di consultazione degli iscritti, riducendo il nobile principio rousseauiano di volontà generale a un calcolo algoritmico che al massimo farà la somma delle volontà particolari.
Ma questo non è Rousseau e studiare costa più fatica che vincere le elezioni.
Cfr.: https://scholescuolaecultura.blogspot.it/2018/05/proposte-per-il-governo-che-verra.html?m=1
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