Governo
Plebiscito (incostituzionale) o Referendum? La scelta di Renzi
Chiuso un referendum se ne apre un altro, decisamente più serio: il referendum sulla grande riforma costituzionale appena approvata, e già passata alla storia come riforma Boschi. Il testo della riforma è stato approvato in entrambe le camere in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti. La Costituzione prevede che la riforma, non essendosi raggiunta la maggioranza dei due terzi, possa essere sottoposta a referendum, là dove lo richiedesse un quinto dei parlamentari o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. (art. 138 Cost.). Il composito fronte del No (M5S-FI-Lega-Sinistra Italiana) ha già raccolto le firme: la notizia di oggi. Ma è questa la strada costituzionalmente corretta?
Dal punto di vista politico, il referendum non è un problema: è lo stesso Renzi a volerne la celebrazione per conferire legittimità democratica alla missione politica del suo governo, di cui la riforma Boschi costituisce evidentemente la stella polare. Il problema è semmai di natura costituzionale. Se, come sembra essere nelle intenzioni del Capo del Governo e del fronte che gli si oppone, il quesito referendario cui verrebbe subordinata l’approvazione della riforma fosse un quesito unico sull’intero complesso della legge Boschi, verrebbe meno – secondo quanto ventilato da alcuni costituzionalisti – l’esercizio della libertà di voto. La riforma interviene infatti su una parte rilevante della Costituzione (circa il 35%), e su materie tra loro non omogenee – dalla abolizione del Cnel alle nuove regole referendarie; dalla composizione del Senato all’abolizione delle Provincie, dal quorum per l’elezione del Presidente della Repubblica alla ridefinizione del processo legislativo.
Il referendum sulla legge Boschi – in base alla legge ordinaria (L. 352 del 1970) che regola la materia referendaria in tema di riforme costituzionali – sarebbe formulato così: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente: ‘Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione’ approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del XX aprile 2016?”.
Ma un quesito così generico su una così ampia, articolata e non omogenea serie di interventi costituzionali impedirebbe all’elettore la facoltà di discernere tra i diversi ambiti, ostacolandone la possibilità di esprimersi su ciascuno di essi distintamente. Se il quesito referendario fosse cioè un prendere o lasciare di natura plebiscitaria si contravverrebbe alla giurisprudenza costituzionale che in materia referendaria prescrive invece che il quesito sottoposto agli elettori sia puntuale, omogeneo e categorico. (Corte Costituzionale, sentenza n. 16, 1978).
La questione è stata già sollevata da costituzionalisti autorevoli – tra cui i prof Michele Ainis e Fulco Lanchester.
Osserva Ainis: “il procedimento di revisione costituzionale fu congegnato per interventi singoli, mirati.” L’unità di misura degli interventi di riforma permessi dalla Carta “coincide con un Titolo della Costituzione, perché ogni Titolo sviluppa un unico argomento.”
Sostiene a sua volta Lanchester – Ordinario di Diritto costituzionale italiano e comparato alla Sapienza di Roma – che il quesito così formulato “vulneri palesemente la libertà di voto e la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale (sent.16/1978) proprio in virtù della impossibilità per l’elettore di discernere tra le diverse – e tra loro disomogenee – parti della riforma.
Questione simile si pose nel 2005 con la riforma costituzionale di Berlusconi – bocciata al referendum – che riscriveva nel complesso 55 articoli. La riforma Renzi-Boschi, che interviene su 40 articoli, ha un impatto ‘costituente’ analogo. Un quesito univoco sarebbe troppo generico e questo – secondo il prof Anis – imprime “un carattere plebiscitario al referendum”. Cosa respinta dalla Corte nella già citata sentenza del 1978.
Che fare?
Il prof Lanchester sostiene che per affermare compiutamente il principio di discernimento “invece che schierarsi per il no o per il sì secco”, sia possibile seguire due strade alternative: “o il referendum parziale o il referendum per parti separate”.
Nel primo caso, verrebbero sottoposti al voto referendario solo singoli punti della riforma; nel secondo, invece, verrebbe sottoposta l’intera legge ma, appunto, con quesiti separati.
Ed è su questa strada che Radicali italiani ha deciso di muoversi, con una doppia iniziativa referendaria coordinata da Mario Staderini (ex segretario radicale e già autore del ricorso all’Onu contro l’Italia per violazione dei diritti politici in occasione dei referendum del 2013) che punterà sia al referendum parziale, sia a quello per parti separate.
Il referendum parziale – spiega il segretario di Radicali, Riccardo Magi – verterà su due punti: l’articolo 75, che tratta appunto della materia referendaria, e l’art 57, relativo invece alla composizione ed elezione del Senato. Su entrambe le ipotesi referendarie i Radicali proveranno a trovare convergenze in Parlamento perché – come hanno scritto il 17 aprile Lanchester, Magi e Staderini al Corriere – “obbligare gli elettori al prendere o lasciare, al dire sì o no a tutto, significa sottrarre loro un reale potere di scelta e costringerli al plebiscito pro o contro Renzi”.
Ci sono tre mesi di tempo, dalla pubblicazione del testo di legge in Gazzetta Ufficiale, per depositare i quesiti referendari che dovranno essere sottoscritti da almeno un quinto dei parlamentari. Spetterà poi all’Ufficio centrale presso la Cassazione vagliarli.
Ma i quesiti da sottoporre alla Cassazione possono essere anche più di uno. In linea teorica, anzi, potrebbero essere presentati tre diversi tipi di quesito: quello unico, riportato su. Quello per parti separate (un’unica scheda sull’intero complesso della riforma Boschi ma con quesiti puntuali sui diversi titoli interessati); ed i quesiti parziali che intervengono invece solo su alcuni, singoli aspetti della riforma (come quelli proposti da Radicali esclusivamente su due punti della riforma, referendum e composizione del Senato).
Perché i quesiti di iniziativa Radicale possano essere presentati – sia quelli parziali, sia quelli per parti separate – dovranno essere raccolte le firme di un quinto dei parlamentari – obiettivo non così fuori alla portata. Basterebbe che le forze politiche che hanno dichiarato di volersi opporre alla riforma, invece di accanirsi in una “santa alleanza” contro Renzi, si curassero di entrare nel merito del testo costituzionale, valutandone le diverse parti e convenendo sulla opportunità di sottoporle distintamente al giudizio degli elettori. Si può essere, per dire, a favore dell’abolizione del Cnel ma non della non elezione diretta dei senatori. Si potrebbe osservare come forse allo stesso Renzi converrebbe adire questa strada piuttosto che quella del voto politico su di lui, non foss’altro perché il voto consapevole rafforzerebbe il valore politico ed il peso democratico dell’esito referendario. Sempre che quello che Renzi vuole davvero sia appunto la consapevole conferma popolare della riforma Boschi e non piuttosto un plebiscito su di sé.
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