Governo

Altro che Senato, Renzi e il Corriere preparano la guerra di Libia

13 Ottobre 2015

Ne ragionai con qualche amico un po’ di tempo fa e non osavo scriverne anche perché il Paese, anche quello che sembra serio, è ipnotizzato dalle vicende degli scontrini dei ristoranti dei sindaci e non ha il tempo per occuparsi di cosette come l’ipotesi di una guerra con tanto di sbarco. Poi il 13 Ottobre, la mattina, compare sul Corsera l’articolo di Angelo Panebianco, raffinato e stimato intellettuale, che sostanzialmente afferma: Renzi in politica interna può vincere le elezioni perché è il meno peggio ma in politica internazionale ha la cultura di uno scout e la sua maggioranza poco di più; in particolare il Premier non spiega l’interconnessione tra la guerra in Siria e quella che ci siamo candidati a guidare in Libia e non mette il Paese di fronte ai rischi ai quali la destabilizzazione del Mediterraneo ci espone. Questi eventi possono determinare la sua possibilità di vincere le prossime elezioni ma deve darsi un piglio da statista perché finora non ha spiegato agli italiani la verità sulla probabilità, forse sulla necessità di una guerra.

Mi si concedano due considerazioni, sulla Politica e sul filone culturale che attiene all’articolo.
Matteo Renzi non è alieno da questi ragionamenti: sulla Libia minacciammo l’intervento mesi orsono e fummo fermati; all’assemblea generale dell’Onu la scorsa settimana, nella evidente sottovalutazione della stampa concentrata sulle scomuniche papali ad alta quota, il Premier ha ribadito la sua volontà di guidare un intervento militare internazionale in Libia dopo il varo del governo di unità costruito da Bernardino Leon. Sia chiaro a tutti: come conferma Panebianco, l’intervento in Libia è un atto di guerra pur mascherato da Peace Enforcing: che il Presidente del Consiglio ne abbia parlato e nessuno abbia alzato obbiezioni è piuttosto singolare.

Non sono un pacifista e la libertà val bene una guerra; ma il far balenare un vincolo tra la questione dei conflitti e le chances di vittoria elettorale sembra suggerire al Premier la via del conflitto internazionale come mezzo per assumere un profilo da statista (Churchill nell’articolo è citato ben due volte) che lo metta in condizione di non avere rivali. Margareth Thatcher si trovò in una situazione simile sulle Falkland: si avviava ad un turno elettorale problematico con i laburisti in recupero ma l’appello all’orgoglio imperiale e la ardita spedizione ai confini dell’Antartide con una Task Force di navi già destinate alla dismissione le diede fama, gloria e certezza della rielezione con i laburisti costretti a votare a favore delle iniziative del governo di Sua Graziosa Maestà.
Ha Renzi bisogno di qualcosa di simile? Qualcuno nei circoli italiani sta seriamente pensando che lo sbarco in Libia a primavera, con la copertura dell’ONU a difesa di interessi italiani di natura sí umanitaria ma certamente anche energetica possa regalare al Premier un riflesso positivo sulle elezioni amministrative nelle grandi città metropolitane che tutto saranno fuorchè amministrative? Applicare schemi di politica interna alle questioni internazionali è cosa da dittature: sempre sulle Falkland esattamente quella fu la motivazione dei generali argentini prostrati dalla crisi economica. È evidente che nonostante le frequenti dichiarazioni di Corradino Mineo non siamo in quella situazione ma in ogni caso la politica internazionale ha dinamiche legate all’interesse nazionale e non ai profili dei candidati sindaci o delle maggioranze parlamentari.

E tralasciando per un attimo le discussioni sulla nomina del Podestà di Roma, si prevede coadiuvato da un nugulo di vice e forse da qualche cardinale in nome della Conciliazione, veniamo alla seconda considerazione: siamo ricaduti nel ’14? Con gli intellettuali che scuotono la Grande Proletaria al fine prenda, con le armi, il suo posto nel mondo? L’articolo non lo dice, e non so se fosse l’intento dell’autore, ma quelle venature culturali emergono tra le righe, dallo scontro con l’Islam dell’Isis all’idea di una guerra “difensiva”, forse “preventiva”, ma sempre guerra che va combattuta sia in Siria che sulla quarta sponda; il tutto rafforzato da una interpretazione dell’articolo 11 della Costituzione che secondo Panebianco nacque “solo” contro le guerre di aggressione di Mussolini e del fascismo. C’è nella cultura italiana un lungo filone che guarda ad un processo di affermazione del Paese soprattutto sugli scenari internazionali come non ci si riuscisse ad emancipare da un Risorgimento protetto dalle Potenze straniere.

E’ un filone che portò non pochi danni nella nostra storia e che periodicamente riemerge anche tra penne raffinate.
Forse è davvero il momento che ci si interroghi sui rischi che la polveriera mediterranea comporta per la nostra sicurezza nazionale ma il ragionamento va fatto concentrandoci su quello, non sui riflessi elettorali: capisco bene che Panebianco ha voluto parlare a Renzi come si parlerebbe a Berlusconi, cioè a due neofiti che trovatisi a incontrare i grandi del mondo hanno preso la sindrome “se io, Obama e tu…” ma questa non è materia elettorale (quella che i due capiscono meglio), è invece cosa che ha a che fare con la credibilità del Paese e con la sua futura sicurezza, cioè con quella di ognuno di noi. E la cosa peggiore è vedere intellettuali che stimo apprestarsi a pamphlet marinettiani. Più che di D’Annunzio oggi avremmo bisogno di Salvemini o, mutatis mutandis, non di Churchill ma di Kissinger.

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