Governo

L’ombra di Moro nelle parole di Maurizio Martina

17 Marzo 2018

La giornata cupa del venerdì 16 marzo 2018 sembrava la fotocopia meteorologica e politica di quello stesso giorno di 40 anni fa quando lo Stato restò sospeso sul baratro dell’incertezza e della incredulità al sequestro di Aldo Moro.

Delle rievocazioni di quel giorno, quella odierna assume una vitalità ossimorica perché rivivifica la personalità di uno degli statisti più solidi del nostro martoriato Paese. Il fantasma, che si aggira nel Palazzo, oggi indica un strada ben precisa che si desume dalle sue parole di circa 73 anni addietro quando nel gennaio del 1945, al limitar della pace, scrisse: “ Vogliamo parlare il linguaggio dello spirito, dell’arte cioè del pensiero e della religione, non vogliamo il potere perché esso ci fa paura, potrebbe rendere anche noi conservatori, non fosse altro di una libertà meschina, potrebbe abituarci al compromesso, potrebbe insegnarci la finzione e noi vogliamo essere liberi…saremo all’opposizione, senza egoismo, senza timore senza speranza”. In quel febbraio 1945, con il susseguirsi di Governi Bonomi e Parri, le speranze dei vecchi popolari di transitare indenni nella nuova fase politica erano fortemente condizionate dal vento del nord che premeva con forza. Nenni e Togliatti, con le forze partigiane, sembravano una speranza per le forze operaie e una revanche naturale al nazi-fascismo. Una forza bruta, animata dal fuoco della guerra, contro cui i vecchi popolari sbandieravano il pensiero e la dottrina sociale della Chiesa.

Le cose poi andarono diversamente ma Aldo Moro restò sempre legato ad una concezione di potere ideale, quasi fosse “il potere di fare le cose” che mal si coniugava con quello che poi diventò al DC post-degasperiana. Tra varie vicende si arriva alla stagione della grandi riforme, la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), il varo della riforma sanitaria(1968-78) coagulate nel centrosinistra degli anni sessanta con il concorso dei socialisti. Non bastò a dare alla DC un volto riformista e di transizione e dunque in capo ad altri 10 anni il compromesso storico. L’incontro con Berlinguer sanò due questioni. O meglio doveva sanarle: la questione morale e l’osmosi tra le culture prevalenti nel paese. Poi l’attentato, il colpo di grazia ad una politica dei passi lunghi ma decisi verso una sinistra che abbracciasse il paese, nella politica e nella cultura per metterlo al riparo da tentazioni estremistiche di qualsivoglia natura. Anche se Moro forse voleva abbracciare la sinistra per conferirle il suo imprinting.

Nulla di simile oggi, non c’è un Moro, non c’è l’identità partitica, non ci sono culture specifiche di riferimento che non siano quelle del passato. Il Paese, una volta ricco e produttivo, cerca di difendere la sua posizione, i suoi strati sociali da attacchi finanziari ed economici che vengono dall’esterno; si rende conto di non poter più vivere di posizioni acquisite, cerca nuovi spazi e orizzonti di crescita. E non li trova. Né trova leader di spessore.

C’è un però. Dal nulla o quasi esce uno spiraglio. Un giovane, nato a ridosso degli anni dell’attentato a Moro, ossuto, silenzioso ma che stavolta, e proprio il 16 marzo, ha parlato. Maurizio Martina rilascia un’intervista a Repubblica e delinea il suo programma non da reggente del PD ma da futuro leader.

...”Servono occhiali nuovi per leggere la realtà. Non basta la crescita per ridurre le disuguaglianze. Deve venire prima il capitale sociale e poi quello economico. Siamo cresciuti in una sinistra che riteneva automatico che pil e dati macroeconomici portassero con sé il miglioramento delle condizioni di vita delle persone. I governi di centrosinistra hanno portato dati reali positivi, eppure siamo stati bocciati. Il voto ci ha sbattuto in faccia questo cambio di paradigma».

Non basta più alzare la bandiera della società aperta. Il mito cosmopolita non è più sufficiente a spiegare il cambiamento che la gente vive. Abbiamo regalato alla destra il bisogno di protezione. Una destra che ha cambiato pelle in ragione della nuova stagione, passando dal post-liberismo all’identitarismo, e ha fatto della chiusura la sua parola d’ordine. La sinistra, invece, non ha la sua nuova bandiera».

…non basta più la socialdemocrazia. Ci serve un po’ di radicalità nelle idee. Ora dobbiamo ripartire con una idea forte di comunità. Interpretare l’articolo 3 della Costituzione, sulla rimozione degli ostacoli all’uguaglianza. Serviranno energie esterne al Pd, ma soprattutto un partito che torni a essere utile».

Opposizione per rinascere con un’identità riconosciuta di partito aperto, difensore dei diritti acquisiti e soprattutto di quelli ancora da vincere. Un mix di radicalismo alla Pannella, un cicinino di dossettiana memoria e un pizzico di pragmatismo craxiano. Sarà una buona ricetta? Meglio del nulla insipido che si profila nel blob della marea gialla e informe. L’ombra di Moro si ritira ma ha lasciato il suo segno.

 

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