Governo
Nostalgia fascista ai vertici. Come è stato possibile, cosa ci aspetta?
Ignazio Benito La Russa è stato eletto Presidente del Senato, in una seduta presieduta da Liliana Segre. Quanto sa essere beffarda la Storia.
La Russa non ha mai nascosto la sua enorme fascinazione per il fascismo, in queste ore rimbalza il video che lo ritrae tra i cimeli commemorativi del Ventennio, conservati in bella mostra nella sua casa milanese.
Ebbene, si dirà, La Russa non si è mai definito fascista: con un grande esercizio di approssimazione, diamo per buono che sia vero. Quel che davvero preoccupa, però, è che chi assurge alla seconda carica dello Stato non si sia mai detto “antifascista”. La Russa, per di più, ripudia lo spirito antifascista che innerva ogni singola disposizione della Carta costituzionale e non solo la XII disposizione finale.
Si dirà: il Presidente è espresso del partito di maggioranza relativa. Ci mancherebbe, è fuori d’ogni dubbio che la questione non si ponga in termini di legittimità. La questione, infatti, è tutta politica e sistemica e si declina, a mio avviso, diversamente: come siamo arrivati ad un tale schiacciamento degli ingranaggi repubblicani per cui un nostalgico del Ventennio, che ripudia il pensiero antifascista, possa assurgere alla seconda magistratura della Repubblica, chiamata ad essere guardiana della Carta antifascista, senza aver mai rinnegato la sua collocazione estremista?
Le ragioni sono tante e molte di queste ce le portiamo sulle spalle noi di sinistra, molte sono da scorgere nello sfarinamento ideologico che è seguito alla fine della Prima Repubblica, il tramonto ha portato con sé partiti leaderistici che hanno annebbiato le caratterizzazioni valoriali di quelli novecenteschi. Quando, quindici anni fa, nasceva il progetto del Partito Democratico esso aveva, tra gli altri, due obiettivi: assolvere ad una dichiarata vocazione maggioritaria e spingere il sistema verso una dinamica dell’alternanza. Ebbene, la propulsione maggioritaria si esaurì in breve tempo come la bipolarizzazione, grande illusione su cui si è strutturata la narrazione della seconda Repubblica. Nei partiti di massa, per definizione, si dissolvono gli estremismi; con l’alternanza si garantisce la normalizzazione progressiva, attraverso l’istituzionalizzazione, di chi si colloca sul confine dei valori repubblicani. Questa diluizione degli -ismi, tuttavia, è fallita nel tempo, per le ripetute scissioni interne al PD, che ne hanno sgonfiato la pretesa maggioritaria, e con l’esplosione del Popolo della Libertà che mirava alla formazione di un centrodestra moderato e repubblicano.
Cosa aspettarsi, dunque, ora che l’impensabile s’è fatto sostanza?
Il neopresidente si è prodigato in un discorso dagli intenti apparentemente conciliatori, infarcito da una miscellanea di citazioni, riferimenti storici che, in ultima istanza, non lo vedono mai ripudiare il fascismo. Cita strumentalmente Violante, astraendo dal contesto del discorso che tenne nel 1996 alcune frasi, per chiedere, dallo Scranno più alto e con la sua ruvida voce, un’Italia pacificata in grado di costruire la liberazione come valore di tutti gli Italiani. Non è forse già così? Non è forse vero che la liberazione dal nazifascismo è già patrimonio di tutti coloro che si riconoscono nella Costituzione repubblicana?
Inoltre, se per pacificazione intendiamo la parificazione tra coloro che si affrontarono, sul confine del Ventennio, gli uni dal lato del Regime, gli altri partigiani e resistenti, ebbene, questa non può dirsi pace bensì revisionismo.
Se questo discorso si farà programma, spetterà alle opposizioni tenere saldamente agganciate le istituzioni repubblicane ai valori dell’antifascismo, a quei valori che, nel suo altissimo discorso, ha richiamato Liliana Segre “a cento anni dalla marcia su Roma”. Certo, il lettore arguto potrebbe obiettare che senza il soccorso di diciassette franchi tiratori, La Russa non sarebbe – ancora – Presidente. Ma questa è un’altra storia.
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