Governo
Nella comunicazione, uno non vale uno
Il referendum costituzionale e le (dis)avventure della Giunta di Roma sono due tra gli argomenti che maggiormente riescono ad infiammare l’opinione pubblica. Mi ci avventuro senza timore, ma con una breve avvertenza che ritengo doveroso fornire ai lettori: in questa sede, non è mia intenzione dare giudizi di merito (nemmeno indiretti) sui temi politici, bensì analizzare sul piano tecnico lo spot di Virginia Raggi per il no.
Subito dopo la sua diffusione, il video è stato oggetto della feroce ironia della Rete, un’arma che 5 Stelle sta scoprendo essere a doppio taglio. Si tratta peraltro di un esito inevitabile, nei confronti di un prodotto che pare confezionato frettolosamente.
Persino l’uso delle luci sembra casuale: complice lo sfondo giallo e bianco (abbinamento già discutibile) e l’abbigliamento dark, il look della protagonista – che già è scura di capelli – contrasta in maniera eccessiva e, in buona sintesi, non le rende giustizia. Dettagli? Certo, ma se su una campagna così importante ci si gioca l’immagine della Sindaca della Capitale, si dovrebbe porre maggior cura anche ad aspetti “marginali” come il modo in cui essa si veste e si pettina. Il solo rango istituzionale del personaggio imporrebbe più attenzione.
Al contrario, il video comunica una sensazione generale di improvvisazione. Non si può non notare come spesso la Sindaca non sia nemmeno al centro dell’inquadratura, ma in questo caso credo che la colpa non sia di chi ha realizzato il video. Si nota infatti come Raggi si muova in maniera nervosa, spostandosi dall’asse corretto, e a quanto pare nessuno le ha spiegato che così non si fa. Chissà se per timidezza, deferenza o impreparazione.
Raggi pare ripetere un po’ meccanicamente dei concetti preconfezionati e i foglietti che sbucano furtivamente sul basso dell’inquadratura, intorno al ventesimo secondo, paiono rafforzare entrambe le tesi: sia quella relativa ad un copione non perfettamente interiorizzato, sia quella di uno spot carente sul piano qualitativo. Postura e gestualità della Sindaca contribuiscono ad infondere una sensazione di disagio e precarietà, come se Raggi desiderasse ardentemente essere altrove.
In fondo, però, tutte queste pecche sono solo piccoli tecnicismi, se paragonati al vero tragico errore di questo video, che sta nel contenuto. Il messaggio non è sbagliato in se’, in quanto è persino logico che un Sindaco critichi il doppio ruolo al quale la riforma lo costringerebbe in caso di approvazione.
Qui i problemi sono due. Intanto, Raggi vi aggiunge in maniera arbitraria ed autolesionistica il suo ruolo di Sindaco della Città Metropolitana, che nulla ha a che spartire con il referendum. Il secondo è che un messaggio, per quanto efficace, non può essere ripetuto da chiunque con gli stessi esiti. Se guardate lo spot di Nogarin, che in sostanza dice le stesse cose, l’effetto è ben diverso, anche perché il Sindaco di Livorno può giustamente aggiungervi un risultato concreto come il reddito di cittadinanza. Anche lui, come Raggi, è penalizzato dalla bizzarra dissolvenza finale, ma questo fa parte dei difetti dello storyboard generale.
Al contrario del collega toscano, Raggi parte con un cahier de doleance che, come sa chiunque conosca i fondamenti della comunicazione politica, è il modo migliore per fare arrabbiare i cittadini/elettori, poiché candidarsi a governare la Capitale d’Italia non le è stato certo imposto dal medico.
A differenza di Nogarin o di Appendino (a proposito: perché non c’è ancora il video della Sindaca di Torino?), Raggi ha in questo momento un’immagine negativa, frutto di mesi nei quali chiunque non abbia vissuto su Marte ha assistito ad una narrazione dalla quale emergeva una enorme difficoltà nel gestire il Campidoglio. E’ inutile ripercorrere i noti eventi, dei quali ribadisco di non volermi occupare in questa sede, ma è ovvio che farle raccontare quanto sia difficile amministrare Roma rappresenti un autogol clamoroso. E’ molto elevata la probabilità che qualcuno reagisca pensando: “Se non ce la fai tu, lascia il posto a qualcun altro”.
Sarebbe stato necessario prepararle ad hoc un copione basato su altri elementi di critica a questa riforma, visto che oltretutto non mancherebbero spunti più interessanti e vicini allo stile “grillino”. Temo infatti che nemmeno alla base del Movimento piaccia un messaggio che verte tutto sull’impossibilità di fare “tre lavori in 24 ore”.
Oltretutto, risulta che ci siano persone che tre lavori in 24 ore li fanno davvero. E per compensi decisamente inferiori a quelli della prima cittadina di Roma.
Un numero ancora maggiore di italiani si accontenterebbe di averne almeno uno, di lavoro, e una forza politica come 5 Stelle non può passare impunemente dal populismo ad un linguaggio che lo nega in maniera urticante.
Forse è proprio per questo che, altrettanto maldestramente, sul finire dello spot Raggi prova a salvarsi in corner con uno slogan più vicino alle radici storiche del Movimento: “No al Sindaco part-time e ai giochi di palazzo”.
Ma di quali “giochi di palazzo” si sta parlando? L’espressione avrebbe potuto essere legata a legittime considerazioni sulla rappresentanza di un Senato composto da amministratori locali, di cui però non si fa nemmeno cenno. In questo modo, la frase appare buttata lì solo come un richiamo identitario, stratagemma che notoriamente si utilizza quando si è in difficoltà e che nel caso specifico ha la stessa attinenza con lo spot che avrebbero le solite sparate sulle scie chimiche o i “poteri forti”.
Pare di poter concludere che il vero errore di fondo sia stato estendere alla propaganda politica il famigerato concetto “uno vale uno”, tanto caro a 5 Stelle. Per quanto indiscutibile sul piano democratico, questo mantra non può essere esteso ai temi tecnici.
E’ più efficace considerare la comunicazione come un abito di sartoria. Così come Nogarin (o chiunque altro) apparirebbe ridicolo indossando un tailleur confezionato su misura per Raggi, allo stesso modo non si può pretendere che il contenuto di uno spot sia intercambiabile tra testimonial così differenti.
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