Governo
Molto peggio del sesso: impressioni da una campagna elettorale inutile
Nel 1992 quel genio di Hunter S. Thompson intitolò “Better than sex” il suo racconto della più folle (fino a quel momento) campagna presidenziale americana, quella di Clinton, Bush padre e Ross Perot. Meglio del sesso per quelle endorfine che una campagna elettorale analogica è in grado di produrre, tra bagni di folla, testosterone e vera mimesi della guerra.
Oggi Hunter S. Thompson non c’è più purtroppo, e ci piace immaginare cosa avrebbe scritto di Trump, ma certamente non avrebbe pensato lo stesso del tristissimo spettacolo al quale siamo sottoposti fino al 25 settembre. Altro che meglio del sesso, questo disvelamento della politica struccata e in mutande con l’elastico allentato è uno spettacolo, almeno per gli esteti della politica stessa (o i drogati della politica, come si autodefiniva Thompson nel sottotitolo), straziante e al contempo del tutto noioso. È rito democratico nella sua idea più deteriore, trito dovere, storpiato e massacrato dall’uso ancor più spinto dei social (ditemi ancora che il digitale fa bene alla democrazia), obbligato peraltro dal fatto che molto sono in vacanza e quasi tutti i civili con la testa altrove.
Perché oggi? Perché questa campagna elettorale è così peggio delle precedenti?
Innanzitutto, perché nessuno voleva veramente queste elezioni, che sono un gioco erotico finito male, una corda tirata troppo che si è spezzata. L’entità dei problemi che il Paese si trova ad affrontare in una fase di debolezza estrema della politica sono tali per cui solo un governo come quello che c’era era in grado di gestirli secondo lo standard europeo. Nessuna nostalgia, Draghi stesso se n’è andato a gambe levate e non tornerà ma, lo dico con dolore, non esiste maggioranza politica in grado di governare seriamente e durare senza vedere il suo consenso sgretolarsi e finire male entro due anni.
Per questo motivo, nessuno voleva davvero le elezioni a parte Giorgia Meloni, che tutti i sondaggi danno trionfatrice. Anche per questo le elezioni politiche sembrano un referendum confermativo della sua leadership: sarà sufficiente? Potrà attribuirsi i pieni poteri? Cadrà per mano amica o dei mercati finanziari?
Anche la leader della Destra, qualora dovesse autoincoronarsi come Napoleone, scoprirebbe (già sa), che i bottoni nella famosa stanza non ci sono. Quando Mario Draghi ha detto di non temere per le istituzioni repubblicane qualunque sarà il risultato elettorale, non ha incoronato la Destra, ma con gesuitica perfidia ricordato che siamo in un contesto di sovranità così limitata che nemmeno un Governo Meloni potrà veramente fare troppi danni, perché ci sono meccanismi consolidati e semi-automatici per spegnergli la luce. Faceva notare Jacopo Tondelli che questo è un vulnus democratico, e non ha torto, ma è altrettanto vero che si è consumata ormai da tempo la divaricazione tra consenso politico e serietà/sostenibilità delle proposte. Carlo Calenda, nel suo adolescenziale agitarsi, ha involontariamente inquadrato il tema quando ha proposto una tregua nella campagna elettorale per affrontare il gigantesco dito nell’occhio dell’aumento del gas: c’è un problema serio, fermiamo il nostro spettacolo come si fermano le partite e i concerti se qualcuno si fa molto male, send out the clowns.
Dove la politica è spossessata è anche deresponsabilizzata, e gioconda coltiva la propria bolla. Ne consegue un florilegio di proposte, al più buone per un paio di giorni di considerazioni a tifoserie contrapposte, che però illuminano sull’identità e le tendenze delle coalizioni in campo. Finita la politica, resta l’autocoscienza.
Il Derby è sempre più chiaramente Strapaese contro Stracittà.
Nelle proposte della Destra c’è tutta l’Italia dei mille paesi, la Provincia che pensa, maggioritariamente, che si stava meglio prima. È un programma conservatore innanzitutto in senso di nostalgico. Non del Fascismo, ma di quei tre decenni nei quali molti italiani avevano la sensazione di stare meglio (e tutti i capelli e qualche chilo in meno). Nuotando nell’inconsistenza delle proposte e dei programmi, è tutto un richiamo all’autonomia nazionale contro la globalizzazione cattiva, un ricordo dei bei tempi andati, quando si lasciava la porta aperta. Nel programma della Destra non esiste la complessità, non esiste il digitale, non esiste il futuro. In un Paese vecchio e sfiatato, che davvero il suo meglio l’ha già vissuto, è un messaggio potentissimo. Perché, lo dicono le tante aree spopolate di questo Paese, i distretto non più competitivi, la società incattivita di troppa Provincia, l’oggi e il domani sono meno belli dell’ieri e la cazzimma del dopoguerra quella proprio non c’è più.
Dall’altra parte, il PD ha purtroppo scelto nuovamente Stracittà. Pensa, dice e propone tutte cose per me (cittadino, laureato, tecnologico) assolutamente condivisibili. È sulle partite della globalizzazione che cambia, delle competenze come chiave della crescita, delle trasformazioni digitale e green come sfide prioritarie, ma non va oltre quelli come me. Che sono classe media, o medio alta (non io), parlano le lingue e si interessano di quello che succede nel mondo e dunque capiscono che proporre la reintroduzione della leva è un abominio (fra i tanti). Siamo noi il suo riferimento, lo votiamo o no a seconda di quanto ci sentiamo choosy, ma parliamo la stessa lingua, incomprensibile a Strapaese, come cacofonico e gutturale ci sembra il loro dialetto.
Ridurre questa questione a quella delle ZTL, o ancora peggio immaginare il PD come un saprofita pronto a subentrare al governo quando i democratici titolari gettano la spugna è a mio avviso una riduzione che non consente di comprendere la questione appieno, come ci sarebbe invece assolutamente bisogno.
Oggi non esiste un’agenda seria e sostenibile alternativa al faticoso equilibrio liberal-democratico fatto di attenzione alla transizione ecologica e a quella digitale, collocazione europea e atlantista, allargamento dei diritti, attenzione alle imprese e alle mutazioni del lavoro, redistribuzione della ricchezza sostenibile con mercati globalizzati e iper volatili. Non esiste perché non c’è, o meglio non ce n’è una che sia compatibile con i campi di forze che tengono il Paese in piedi. Puoi sognare l’Italexit mentre aspetti i bonifici del PNRR, di uscire dalla Nato, di abolire la proprietà privata a partire dai jet, ma niente di tutto ciò è minimamente compatibile con l’esistenza in vita di un Paese piccolo e assai indebitato. Non si vedono da nessuna parte fermenti rivoluzionari che promettono di rovesciare questo stato di cose e quasi nessuno ha voglia di Venezuela.
Chi lo ha capito, spesso perché ha strumenti intellettivi e una posizione socio economica che lo colloca nelle zone centrali dei centri urbani, le famigerate ZTL, si comporta di conseguenza, chi non l’ha capito ed è sensibile a tutti i Lucignolo che blaterano di Patria, interesse nazionale, facciamo da noi, fa due più due e trasforma i ragionevoli in cattivi.
Ma le brutte notizie (che c’è poco da fare), o anche semplicemente la notizia che bisogna allacciarsi le cinture e prepararsi a cambiamenti seri (non necessariamente tutti solo e per sempre negativi) vanno dati con tatto e mestiere.
E qui casca l’asino. Il PD non ha niente di interessante da dire a quella parte del Paese, che temo sia maggioritaria, che è conservatrice perché pensa che il meglio sia dietro le spalle. Non condivide futuro, che ha in sé una speranziella, ma è diventato il volto principale del “da oggi in poi”, che suona decisamente più minaccioso.
Un elemento di equilibrio sarebbero potuti essere i territori e la comunicazione a banda larga fra il consigliere del comunello di montagna e il parlamentare europeo, che è quello che caratterizza un partito e lo differenzia dal Grande Fratello a cui partecipano soggetti in cerca di autore (dai dirigenti democratici anti israeliani ai candidati del terzo polo filo Putin), ma le scelte delle liste elettorali hanno penalizzato enormemente proprio il tema del radicamento territoriale, che rappresenta l’unico antidoto verso l’essere percepiti dai deboli come il partito di tutti i poteri forti. Peccato. Vero che lo sciagurato taglio dei parlamentari ha inciso, ma si poteva e si doveva fare più e meglio. Dalla dimensione territoriale si ha il polso di quello che succede davvero, si comprendono le paure prima che diventino psicosi, si spiega quello che sta succedendo e quello che si potrebbe fare parlando con persone vere.
Se il referendum confermativo dei sondaggi del 25 settembre manderà il PD all’opposizione, sarà utile discuterne.
Magari dopo il sesso, che resta mille volte meglio di questo spettacolo.
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