Governo
Meglio un giorno da Draghi che……
Dopo che il Parlamento italiano ha bruciato il tecnico più autorevole a livello internazionale mai resosi disponibile per il nostro governo e dopo aver visto per giorni le mosse impazzite di un Movimento 5 Stelle diventato ormai un moscerino alla ricerca di un parabrezza ci si può domandare: perché Draghi non ha scaricato il M5S e non è andato avanti con chi ci stava, incassando peraltro un’ampia maggioranza?
Sembrava la cosa più ovvia, qualcosa di simile a quello che gli economisti chiamano un punto di “ottimo paretiano” dove qualcuno ci guadagna e nessuno ci perde.
Infatti sarebbero stati felici i grillini e il loro capo Conte, liberi finalmente di andare a incassare anche loro un po’ di “rendita di opposizione” (ma si accorgerà Conte che se oggi il Movimento è in Parlamento e lui è fuori, tra qualche mese sarà il viceversa: lui sarà dentro ma non si sarà più il Movimento); sarebbero stati felici anche i leghisti e tutta la Destra, stanchi di fare la fila dietro i 5Stelle nelle stanze di Palazzo Chigi.
Ma il rifiuto di Draghi a questo scenario è stato netto e non senza ragione.
1) L’uscita del M5S dalla maggioranza avrebbe indebolito il Governo Draghi rispetto al suo assetto iniziale del 13 febbraio. Diverso, forse, sarebbe stato se fin da subito i grillini si fossero sfilati e avessero fatto opposizione, magari “costruttiva”.
2) L’uscita del M5S dalla maggioranza avrebbe spostato verso il Centro-Destra l’asse governativo dandogli una connotazione non proprio di “unità nazionale”, una qualifica importante, ha sottolineato Draghi, per un premier che non si è mai presentato (e mai si presenterà) davanti alle urne.
3) L’uscita del M5S dalla maggioranza avrebbe ampliato di molto lo spazio di manovra della Lega. In vista di una legge di Bilancio impegnativa, in un paese piegato e piagato da innumerevoli emergenze e sensibile a tutte le suggestioni, per di più a pochi mesi dalle elezioni, il governo si sarebbe trovato sotto un ricatto insopportabile, con la minaccia dell’esercizio provvisorio dei conti pubblici e di una crisi sotto Natale.
Il Premier, con un’asprezza senza precedenti, ha ribadito i suoi punti fermi, convinto, forse, che gli eccezionali segnali di consenso arrivati dall’opinione pubblica sarebbero stati l’argomentazione più forte per percorrere l’ultimo miglio di questa legislatura e fare le urgenze da tempo sul tavolo: completare il PNRR, approvare la legge concorrenza (inclusi taxi e concessione balneari), riformare la giustizia civile, penale e tributaria, riformare il fisco e le riscossioni, intervenire per i poveri e i non autosufficienti, ridurre il cuneo fiscale, rinnovare i contratti collettivi di lavoro, migliorare il reddito di cittadinanza, andare, con l’Europa, verso il salario minimo, spingere per una riforma delle istituzioni europee, procedere con i rigassificatori, indispensabili per la sicurezza energetica, rivedere i meccanismi del bonus edilizio, riformare la sanità territoriale, confermare il sostegno all’Ucraina e gli sforzi per aiutare la pace e per scongiurare una crisi del grano.
Troppo? Certamente troppo per i nostri populisti di destra e di sinistra. In un articolo del gennaio 1970, pubblicato sulla rivista Il Mulino, Nicola Matteucci aveva già visto, lucidamente, l’insorgenza delle pulsioni populiste e la loro incapacità di articolare e realizzare una stagione di riforme. L’anti-intellettualismo che caratterizza tali pulsioni “contro lo specialista, l’esperto, lo studioso” e contro la ragione critica e la conoscenza storica, ha fatto oggi una nuova vittima senza rendersi conto che, anno dopo anno, sta uccidendo l’intera società.
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