Governo
Renzi, il tempo è denaro (ed è finito)
In un recente pezzo pubblicato da Stati Generali l’autore accompagna la parola con una directory della musica che ne ha accarezzato la stesura. È estate, e qualche concessione autobiografica è possibile, quindi scrivo sotto il gazebo di una pensione nel mezzo delle assolate vigne toscane dove il tempo è scandito solo dal mutamento orario del clima e dagli effetti sulla lucidità dell’etilico prodotto locale; ove la musica è l’assoluto silenzio interrotto da locali profane bestemmie e dai passi dei figli di Albione in visita nel Chiantishire. In una parola, faccio ancora finta di essere un privilegiato.
Ieri Renzi alla direzione del PD ha forse definitivamente fallito la sua missione. Il piano di riduzione fiscale progressiva presentato come una sfida è frutto di una attentissima declinazione di una politica di comunicazione che ha un presupposto, far dimenticare l’esistenza del PD, e accompagnare in un crescendo di promesse da realizzare il suo destino politico sino alle elezioni del 2018. È il suo un piano spiattellato in anticipo rispetto alla tradizionale ripresa settembrina perché l’uomo esce con le ossa rotte dal pessimo risultato delle elezioni amministrative con la sconfitta di Venezia e la vittoria ricca di antica tecnica da prima Repubblica ma di pessima immagine nella regione Campania. Episodi accompagnati dalla evidente inesperienza sulla politica internazionale mostrata sulla crisi greca, dove iniziammo sotto l’ala protettrice tedesca e finimmo sul fronte francese, un disastro mediatico che va oltre l’effettivo risultato essendo il primo un buon esito numerico e il secondo un comportamento non maltrattato, anzi, sulla stampa internazionale.
Il Primo ministro della Seconda o Terza Repubblica (ho perso il conto e i distinguo) coglie il punto della questione fiscale come chiave elettorale (come fu la donazione degli 80 Euro), tenta di sottrarre terreno al centrodestra e contemporaneamente di smontare le posizioni della minoranze, quel gran vociare di Cofferati e di Fassina che ha fatto rammentare all’elettore moderato (quello della “casa in affitto” di Bersani) cosa sia il PD riconducendolo nell’immaginario dell’invotabile: regola aurea, Bersani ha vinto e la sinistra al solito ha perso.
Tutto bene, quindi, e apparentemente perfetta la comunicazione di un piano triennale della riduzione fiscale partendo dalla prima casa come piaceva a Berlusconi.
Tecnicamente invidiabile come comunicazione, certo il fallimento in termini politici.
Matteo Renzi non è quello dei piani del buongoverno desiderato nei tempi che furono. Matteo Renzi rappresentava per gli italiani il “tutto e subito”, la assoluta diversità, la discontinuità temporale nel Fare e nei costumi col passato. In una parola, al giovane Renzi per inconsuetudine con la stanza dei bottoni, si chiedeva non la riforma ma la rivoluzione, fosse essa possibile oppure no.
Il suo piano fiscale non lo è, non è lo shock che più o meno consciamente ci si aspettava. E non servirà ad accorciare le distanze nella crescita con gli altri paesi perché, sia chiaro, se si cresce meno della media europea essendo il terzo paese dell’Unione significa che il nostro livello di ricchezza diminuisce ancora rispetto a quello degli altri e a fine di ogni anno saremo ogni volta un po’più poveri. Certo, Renzi è spaventato dalle riforme: ha provato a farne una quasi inutile sulla scuola ed elettoralmente ha fatto un bagno di sangue. Ma il tempo passa anche per lui e più ci si avvicina al 2018 e meno si potrà mettere mano ai privilegi insopportabili di un pezzo della società italiana, in una parola: meno opportunità ci saranno per avviare un processo ineludibile di riequilibrio di giustizia sociale.
La rivoluzione, non la riforma fiscale, è ciò che si chiese a Berlusconi e grazie e alla imbellità politica di Tremonti andò come sappiamo. Renzi fu la speranza degli outs rispetto a degli inns che pascolano nella spesa pubblica. Questa riforma fiscale dalle improbabili coperture farà la stessa fine in un paese pervaso dalle paure del quotidiano, dalla rassegnazione di un futuro che se va bene sarà per qualcuno uguale al presente e per molti un buon motivo per spedire le generazioni più giovani del fiorentino a far successo all’estero. Non darà corpo, come sarebbe assolutamente necessario, ad una ripresa che se anche correggi di uno 0,1% rimane un autentico schifo.
Un uomo politico oggi dovrebbe comprendere un paio di cose: la prima è che la stampa è un passo indietro rispetto alla realtà perché per definizione non la vive ma ne legge le manifestazioni quando diventano evidenti. La seconda è che la comunicazione politica non deve seguire né la stampa né le minoranze interne ma le viscere del Paese e non ne è capace perché il processo di razionalizzazione intellettuale è lento: registra i mutamenti, non li vede nel dispiegarsi e ancor meno li anticipa. Un politico non può avere quei tempi se no ci basterebbe il solito ufficio studi: deve avere le mani immerse nelle viscere che governa, sentire con i polpastrelli e avere l’intuito del grande medico che, inevitabilmente, porta alla rivoluzione rispetto ai miglioramenti in continuità nel cluster della innovazione. Questa è la sfida che ha di fronte, le sue deficienze culturali sono evidenti e non lo aiutano.
C’è ancora la remota speranza che la sconfitta ne faccia uscire la genialità, se ne ha, perché non di ragionieri ma di rivoluzioni geniali abbiamo bisogno dopo sei anni di guerra economica che ci ha disfatto nell’animo e nelle ambizioni. E lo dovrà fare da solo perché la gente non scenderà in piazza a dargli forza o a giustificarne l’agire: non lo ha fatto in Grecia, non lo farà nel paese dove speriamo che io me la cavo. Fallisse, ci rimarrebbero le macerie, avendo il tempo e la storia distrutto le sue alternative.
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