Governo

Lo sbarco dei geronto-marziani sul pianeta RAI

6 Agosto 2015

C’è una certa ironia – senz’altro involontaria – nella vicenda dei consiglieri d’amministrazione nominati per la RAI dai partiti politici e, ora, a rischio decadenza proprio per via di una norma di legge che vieta alle società a controllo pubblico di elargire incarichi dirigenziali ad attempati pensionati in cerca di un posto al sole per il proprio fine-carriera (se non, dice la legge, per un tempo limitato di un anno e senza stipendio). L’ironia sta, certamente, nell’immagine di un ceto di legislatori talmente distratti da non conoscere le normative da loro stessi approvate. Un bel paradosso per chi, per professione – e con lauta retribuzione – dovrebbe scrivere le leggi che regolano la vita di tutti i cittadini.

Ma l’ironia più grande non sta forse qui. A ben guardare, la nomina di un cda di ultrasessantenni (quattro su sette più vicini ai settanta, per la verità) ben s’attaglia alla condizione attuale del servizio pubblico italiano. Le reti pubbliche della RAI, in particolare quelle generaliste, hanno vissuto, in questi anni, un poderoso processo d’invecchiamento. A seguire Raiuno, Raidue e Raitre sono soprattutto gli ultrasessantacinquenni. Il semplice dato rende evidente questa situazione: dei circa tre milioni e mezzo di spettatori che, nelle ventiquattro ore, seguono i canali pubblici, quasi il 50% (1.689.000) ha più di 65 anni (primi sei mesi del 2015). Per il prime time le proporzioni sono circa le stesse, con qualche variazione fra le reti (Raiuno e Raitre sono più “anziane”, Raidue abbassa un po’ la media, grazie soprattutto alla serialità crime).

C’è dunque grande sintonia fra il cda appena nominato e il suo pubblico. Un caso di perfetta armonia, se non fosse che, con questa classe dirigente e questo pubblico come target primario di riferimento, la RAI si vota inevitabilmente – “fisiologicamente”, verrebbe da dire – a un lento e inesauribile declino. Si tratta di un circolo assai poco virtuoso: soddisfare un’audience numerosa e sostanzialmente conservatrice (sul piano dei gusti e dei consumi culturali) mette al riparo dal porsi problemi complessi come quelli relativi all’innovazione dei contenuti e dei linguaggi che vada almeno di pari passo con lo straordinario cambiamento tecnologico che è avvenuto in questi anni, e che sta ancora avvenendo.

Certo di questi problemi i neo-consiglieri non hanno alcuna contezza, né vogliono averla. Le dichiarazioni “a caldo” rilasciate in questi giorni ai quotidiani sono imbarazzanti, per loro e per chi li ha votati.

L’età anagrafica conta in realtà poco, e difatti Carlo Freccero – l’unico veramente competente – ha affrontato la sfida con lo spirito di un ragazzino, pronto anche a “lavorare gratis e in catene – ha scherzato – pur di fare un dispetto a Renzi”. Sugli altri c’è poco da dire. Anziché riflettere sulla missione stessa del public service broadcasting, sul suo pubblico di riferimento (o, meglio, sui suoi “pubblici” di riferimento), sul meccanismo di finanziamento, sul rapporto con le industrie creative e digitali – cito questi perché sono i temi in discussione in Gran Bretagna a partire da Libro Verde appena presentato dal governo Cameron per una pubblica consultazione  sulla BBCMazzuca (67 anni) ricorda con elegiaca nostalgia gli anni d’oro di “Lascia o Raddoppia?” “quando la programmazione al cinema veniva interrotta” dalla tv (sic!); Borioni (di cui non si trova in giro un CV o traccia di una pubblicazione che non sia apparsa sulla prestigiosa “Left Wing” di Matteo Orfini) è giovane, ma afferma, con altrettanto candore, di non sapere nulla di digitale perché “si occupa di cultura” (ma probabilmente di “Cultura”); Guelfi (70 anni), primo spin doctor di Renzi, pensa al teatro in TV e al suo stipendio (propone infatti di girare in RAI la sua pensione per risolvere il fastidioso impedimento di legge); Diaconale (69 anni), direttore dell’altrettanto prestigioso e lettissimo quotidiano “L’opinione delle Libertà” e presidente del Parco nazionale del Gran Sasso, ricorda che “la Costituzione impone una retribuzione per chi svolge un’attività” (sic).

Ci sarebbe molto altro da dire sulle nomine, per esempio sul fatto che la politica italiana ritenga che siano soprattutto i giornalisti a esprimere una competenza dentro un’azienda televisiva (cinque membri del cda su nove, Presidente compresa), pensiero che mostra tutta l’inconscia preoccupazione per un tema unico: l’informazione (o meglio, il suo controllo). Informazione che è, però, un tassello di una macchina molto più complessa, quella di un broadcaster pubblico che si confronta, oggi, con imprese multinazionali altamente competitive (Sky, Discovery, fra poco Netflix…) e non più con la sola Mediaset.

Ma in realtà si può solo concludere che il Governo ha fatto scelte talmente sconsiderate sulla televisione pubblica, in una fase così cruciale di cambiamento, perché ha in mente il modello dell’uomo solo al comando (come il super-Preside nella “buona scuola”, o lo stesso Renzi). Il nuovo Direttore generale Antonio Campo Dall’Orto è – assieme a Freccero – il solo vero competente del mazzo: starà a lui raccogliere la sfida, affiancato da compagni di viaggio che paiono appena sbarcati da Marte.

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