Governo
L’Italia sospesa tra il lockdown e le incognite della riapertura
La riapertura delle attività industriali è urgente, ma il governo ha tardato nell’elaborazione dei protocolli sanitari. Proliferano i comitati ma quel che manca è la responsabilità politica. Nello stato d’eccezione la capacità di decidere è determinante.
Nell’Italia del mezzo aprile 2020 stanno prendendo sempre più corpo senso di incertezza e confusione mediatica e istituzionale. Sono alcune tra le drammatiche conseguenze della crisi causata dal virus ancora non ben conosciuto e in continua evoluzione, nella quale la mancanza di chiari punti di riferimento e la difficoltà di intraprendere misure efficaci di contenimento compatibili con la sopravvivenza del nostro sistema economico producono disorientamento tra i cittadini.
Tale disorientamento, sfortunatamente, è ingigantito dall’assenza di una guida politica nel paese che si faccia carico di elaborare e spiegare una strategia per far ripartire in tempi definiti il sistema produttivo con le adeguate misure di sicurezza, per quanto questa non potrà mai essere al 100%. Perché ci stiamo avviando verso i due mesi di chiusura ormai e non è pensabile che un sistema economico possa rimanere fermo più a lungo. Le aziende (specialmente le piccole e micro) rischiano di fallire a decine di migliaia, con ripercussioni a catena, rischiano di uscire dalle catene di fornitura internazionali, devono pagare affitti e mutui, oltre naturalmente le tasse rimandate a giugno (dopodomani, cioè), che saranno pagate con denaro preso a prestito con modalità per nulla chiare e semplici, senza contributi a fondo perduto come è avvenuto invece in altri paesi europei. Le previsioni di caduta del Pil per il 2020 indicano un -9%, secondo la stima del FMI. Le conseguenze della crisi economica saranno perciò devastanti e sarà a rischio la stessa pacificazione sociale, anche a causa della qualità mediamente bassa della nostra classe politica.
Non è più possibile indugiare sulla riapertura delle attività produttive e del terziario che presenta rischi non elevati di aggregazione di persone, naturalmente elaborando strategie per la sicurezza dei lavoratori e per i trasporti nelle aree urbane. Sarebbe ormai un’ovvietà, ma al 19 aprile (giorno 60 dal primo caso di Codogno) abbiamo solo un fiorire di comitati (tra gli altri, uno con 74 membri, uno di cui non si conoscono i membri) di cui si fa fatica a capire i reali poteri e a individuare un coordinamento sulle tematiche in sovrapposizione. Non è affatto semplice la definizione e la messa in atto dei protocolli di riapertura, ma proprio per questo il lavoro di preparazione è stato avviato con colpevole ritardo, anche in considerazione del fatto che le misure dovranno essere spiegate, discusse e accettate dalle parti sociali e infine comprese e attuate dalle imprese. Tale ritardo è avvenuto nell’ottica, come si sentiva dire da più voci, che finchè non fosse stato sconfitto il virus non si sarebbe dovuto parlare della ripresa delle attività, con a portata di mano l’accusa ai soggetti imprenditoriali di infischiarsi della salute dei lavoratori e pensare solo al vil denaro. L’orientamento sembra ormai quello di procedere alla ripresa delle attività industriali a cominciare dal 4 maggio. Troppo tardi? Difficile giudicare, però, a confronto con i nostri partners europei, saremo quelli che avranno avuto lo stop più lungo, insieme alla Francia, senza peraltro per questo aver contenuto più degli altri i contagi, con l’eccezione della Spagna, e i decessi. Almeno fino ad ora. Appare tuttavia certo che, al fine di avviare la ripresa, siano necessari chiari ed esaurienti protocolli, oltre alla disponibilità dei dpi per le aziende, anche perché nel frattempo molte di queste lavorano sulla base del protocollo firmato da governo e parti sociali il 14 marzo, ampiamente superato dai fatti. Aver nominato la “Commissione Colao” soltanto in data 10 aprile sembra proprio essere stato un grave errore.
In ogni caso, al di là del lavoro delle numerose commissioni tecniche, quel che manca è l’assunzione di responsabilità di una politica, ai massimi livelli di governo nazionali, che avrebbe il dovere di decidere e fare chiarezza sulla fine di questo stato di eccezione, pur nella enorme difficoltà della situazione, che nessuno nega. Naturalmente senza trascurare la possibilità di prevedere restrizioni ulteriori per specifiche e limitate aree in cui si ritenga ancora il virus troppo diffuso. E’ la scarsa autorevolezza e capacità decisionale di chi ha la guida dell’Italia, ovvero del governo e del Presidente Conte (che pure non disdegna di presentarsi come “uomo solo al comando”, oltre ad agire in modo discutibile dal punto di vista costituzionale, come ben spiegato anche da Sabino Cassese) in particolare, la principale fonte del disorientamento generale e della schizofrenia informativa. Tali criticità non mancano inoltre di favorire le fughe in avanti o all’indietro di alcune regioni, non esenti da responsabilità nella gestione della crisi, che, immancabilmente, non perdono occasione di fare pure loro polemica e propaganda politica, nel contesto costituzionale già complicato del nostro titolo V.
Come recita la nota massima di Carl Schmitt, “Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Qui ora siamo, e in assenza di decisione vi sono solo e soltanto anarchia istituzionale e confusione comunicativa. Speriamo che in queste due settimane si possa assistere ad un cambio di passo.
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