Governo
L’insostenibile leggerezza della scuola breve
Ormai è fatta. La demolizione della scuola è completa. I licei saranno quadriennali, per ora in via sperimentale, presto in via definitiva. Che la notizia arrivi ad agosto è una strategia comunicativa: la gente è al mare, è distratta dal caldo, è meno informata e, quindi, meno reattiva. Così può passare indisturbata l’ennesima arbitraria imposizione di governi che hanno come unico scopo la destrutturazione del sistema educativo.
Cosa c’è di sbagliato in questo provvedimento? Il campo delle riflessioni è sterminato: si spalancano innumerevoli orizzonti ermeneutici.
a) Si tratta di un’epurazione razziale
L’espressione è forte, ma rende l’idea. Ridurre il curricolo liceale a quattro anni determinerà ovvie conseguenze lavorative: riduzione del personale docente nelle scuole, tagli all’organico e conseguente aumento degli insegnanti soprannumerari che affolleranno – in attesa di una sede – le reti degli ambiti territoriali.
I docenti sono troppi: le nuove assunzioni previste dalla 107/2015 sono state un tributo da pagare all’Europa. “È l’Europa che ce lo chiede”: è il solito mantra ripetuto da ogni ministro dell’Istruzione. Ma i posti corrispondenti alle nuove, massicce, immissioni in ruolo non sono mai esistiti, al punto che sono state inventate le cattedre “fantasma” dei potenziatori.
I docenti costano: il loro lavoro è “un vuoto a perdere”, sono improduttivi. Allora meglio sbarazzarsene. Basta inventare la “bufala” della scuola breve, dire che i licei quadriennali sono un’opportunità offerta ai giovani per immetterli subito sul mercato del lavoro – quale lavoro? – e così si fabbrica la “post verità”: una scuola snella, veloce, efficiente, light. Non importa se il costo umano è alto. La “razza” dei docenti è imperfetta: parla, si emoziona, prova affetto, ama, conosce, ha cultura. Queste cose fanno male. I docenti vanno sostituiti con “nuovi ambienti di apprendimento”, forme virtuali di istruzione, dove è sufficiente un solo coach, animatore, facilitatore, che attraverso piattaforme pseudodidattiche dà disposizioni, carica “materiale di studio” – in genere forme predigerite di sapere in formato digitale – fornendo ai giovani la falsa illusione che nel mondo tutto possa essere semplificato e che la complessità si possa gestire nel cloud.
Insomma, le scuole quadriennali possono permettersi di perdere insegnanti, tanto ci sono le piattaforme che proliferano in modo esponenziale: moodle, google classroom, fidenia, edmodo ecc.
Disumanizzare la scuola. Ecco l’obiettivo.
b) Bisogna formare alunni meno colti: competenti, sì, ma meno colti!
Una scuola breve che non preveda uno snellimento dei programmi – che, allo stato attuale, restano, infatti, invariati – dovrà inventarsi strategie d’insegnamento che diano contenuti stringati, allo scopo di ottimizzare i tempi. Si farà di tutto un po’: una poesia di Leopardi; i regimi totalitari, la Resistenza (meglio in breve, in poche parole, al massimo il testo di “Bella ciao”: non si sa mai, potrebbero formarsi allievi rivoluzionari!); la vita di Platone; un teorema, sì, quello famoso, quello di Pitagora che si collega anche alla filosofia … così Edgar Morin la smette di pubblicare libri che invitano all’interdisciplinarità e la finisce di citare Pascal e la sua idea dei saperi interconnessi: “ritengo che sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere particolarmente le parti“.
La parola d’ordine della nuova scuola è la “certificazione delle competenze”. Le conoscenze hanno smesso di essere importanti. L’insegnamento non deve essere trasmissivo, i docenti hanno il divieto assoluto di dire ai loro alunni ciò che sanno, ciò che hanno appassionatamente studiato. Se la vedano da soli, questi studenti! Si chiama problem solving ed è l’innovazione didattica più significativa, capace di illudere che nella vita ci sia una soluzione a qualsiasi problema e che l’allievo, novello Ulisse, sfiderà – sempre vincente – i Ciclopi e i Lestrigoni del sapere, diventerà competente e affronterà il mondo come un test, mettendo la crocetta sulla sola opzione giusta, incurante del fatto che nella vita non ci sono quasi mai risposte sicure e che l’esistenza umana è il regno del caos, dell’incertezza.
L’addestramento al problem solving rende i ragazzi competenti. Questo è l’assunto su cui si fonda il nuovo pedagogismo delle flipped cassroom. Nessuno fa caso, però, alla radice etimologica della parola “competenze”. Il termine deriva dal verbo “competere”, ha la stessa matrice di “competizione”, il principio su cui si fonda la società del mercato globale, quella in cui tutto, anche l’uomo-merce, deve essere competititivo per vincere la selezione naturale e affermarsi.
Ebbene, forse gli alunni della scuola breve saranno competenti, ma certamente saranno meno colti.
La cultura ha bisogno di tempo, di riflessione, non si risolve in un test a risposta multipla, il solo che si possa valutare oggettivamente sulle piattaforme che ottimizzano i tempi, per una scuola che deve alternarsi al lavoro (l’alternanza scuola-lavoro resta, infatti, un cardine della legge 107/2015) e che deve finire in quattro anni. Va detto – a titolo d’esempio – che Eichmann fu un uomo “competente”, portò a termine la “soluzione finale” in modo ineccepibile. Forse un uomo “colto” non lo avrebbe fatto, avrebbe avuto il coraggio di dissentire da una legge ingiusta e da un dittatore, avrebbe detto “no”. Avrebbe rischiato, certo, ma non si sarebbe reso artefice di una delle atrocità più gravi della storia.
Questa è la differenza tra competenza e cultura: la competenza ti rende un buon esecutore, la cultura fa di te un uomo libero.
c) Una scuola di formichine operose. Ma perché?
L’atto finale della legge 107/2015, l’istituzione, cioè di scuole quadriennali, è una imposizione politica, ancora una volta arbitrariamente applicata. Il nostro sistema,
fondato sulla manipolazione linguistica volta ad anestetizzare le coscienze, chiama i bombardamenti “missioni di pace”, la privazione dei diritti dei lavoratori “riforme del lavoro”, nobilitate con pronuncia anglofona come “jobs act”. Ebbene in un sistema del genere – osserva giustamente Diego Fusaro nel suo Pensare altrimenti – la destrutturazione programmata della cultura è orwellianamente chiamata “buona scuola”.
Un Paese che taglia anni di studio, docenti, conoscenze, ruba ai giovani anche la speranza, la bellezza. Un apprendimento arido, affidato sempre più alle nuove tecnologie che gradualmente favoriranno lo slittamento delle classi reali verso le classi virtuali, toglie ai ragazzi il piacere della scuola, che diventerà un luogo di formichine operose senza sogni, senza idee, ronzanti in un vano affaccendarsi verso un futuro che non è più una promessa, ma acquista spaventosamente i connotati di una minaccia.
La strada intrapresa porta a un vicolo cieco. Urge recuperare il sogno, l’ideale.
Aveva ragione Camus: la bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene il giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno di lei (A. Camus, L’uomo in rivolta).
Devi fare login per commentare
Accedi