Governo
L’incarico a Mario Draghi risveglia il populismo delle élite
L’incarico affidato a Mario Draghi pare aver risvegliato il populismo delle élite a mezzo stampa. Tripudio di quella borghesia pronta a chiedere aiuti allo stato, anche dopo delocalizzazioni selvagge, salvo lamentarsi quando il governo elargisce mance ai più deboli. I giornalisti commentano beati l’uscita di scena di Giuseppe Conte, scrivono melense agiografie di Mario Draghi, accolgono Matteo Renzi come liberatore e riabilitano perfino Matteo Salvini.
I media si scagliano contro Giuseppe Conte e il suo portavoce, Rocco Casalino, additati come principali esecutori della catastrofe politica. Dal punto di vista economico-politico, le élite non sembrano perdonare il loro interventismo statale, imputati di aver aiutato l’impresa pubblica e i cittadini, anziché garantire libero corso al mercato. Come specchietto per le allodole, i media usano la retorica dell’assenza degli investimenti strutturali, la quale sarebbe causata dai deliri di Beppe Grillo e del M5S. Sfortunatamente, il belpaese non conosce un vero piano di investimenti dai tempi della costruzione dell’ILVA di Taranto. Lo stesso governo Renzi si è limitato a grandiosi piani di governance che avrebbero dovuto fa ripartire l’Italia. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Ovviamente, il problema è ben più profondo. La politica si rifiuta di elaborare un’idea di paese e la pubblica amministrazione, dilaniata dai tagli e dalla mentalità aziendalistica, si mostra incapace di progettare e realizzare gli interventi.
Sotto un altro punto di vista, i media si rifiutano di ammettere che il dilettante Rocco Casalino è riuscito a trasformare il grigio avvocato del popolo in un personaggio popolare. Giuseppe Conte, privo dei super consulenti assoldati da Mario Monti e Matteo Renzi, rimane il politico più popolare del paese, abile a districarsi nei palazzi romani come l’uomo della gente rigettato dalle élite. Non è facile riconoscere meriti a Rocco Casalino, ma il livore contro di lui rispecchia i sentimenti di invidia della stampa italiana.
I due Mattei sono oggi presentati come uomini pragmatici, perdonati per il razzismo dell’uno e l’egotismo dell’altro. A occhi distaccati, appaiono in competizione per assumere lo scettro di peggior politico della storia repubblicana. Il senatore fiorentino ha recentemente sopravanzato l’avversario grazie al siparietto in Arabia Saudita, ma il milanese potrebbe recuperare. Dopo anni spesi ad attaccare Bruxelles, potrebbe sostenere un governo espressione di quei poteri. Per un partito strutturato, tale giravolta dovrebbe automaticamente innescare la cacciata del segretario da parte del gruppo dirigente, cosa che puntualmente non accadrà.
La stampa trascura Nicola Zingaretti e Roberto Speranza. I due hanno il merito di aver compreso l’importanza della fase politica precedente, ma non sono riusciti a salvaguardarla. Come imprigionati nelle proprie logiche, pregni di fiducia cieca nelle istituzioni, hanno insistito per un Conte ter anche quando è risultato impossibile. Ora sono pronti a sostenere Draghi, perché non riescono a immaginarsi scenari diversi.
Il loro compito non è facile. Come affermato dal capo dello stato, non è possibile votare, perché saremmo travolti da un’ennesima, insostenibile, ondata della pandemia. L’alternativa è una nuova maggioranza. Ma, Sergio Mattarella, anziché chiedere ai partiti di formulare una sintesi, ha giocato d’anticipo incaricando l’uomo più stimato e prestigioso del paese. Ennesima forzatura istituzionale che chiama una sorta di Leviatano per mettere ordine alla politica con la forza. Commissariare la politica quando si devono compiere scelte importantissime appare davvero come una brutta pagina della nostra storia.
Il personaggio di Mario Draghi appare più pragmatico rispetto all’indecoroso quadretto agiografico. Un passato in chiaroscuro, di equilibrismi tra manovre keynesiane e piani di austerità e privatizzazioni. Non è dato sapere quali politiche effettuerà, ma è possibile ipotizzare che l’ex governatore della BCE sia privo di poteri taumaturgici in grado di trovare una maggioranza che in un sol colpo ricorra al MES, sblocchi i licenziamenti, abolisca quota 100 e reddito di cittadinanza, potenzi le politiche attive del lavoro, etc.
Le élite populiste si auspicano questa immediata e improvvisa inversione di rotta che per la popolazione significherebbe macelleria sociale. Fortunatamente, i partiti, dopo l’esperienza Monti, hanno compreso che non possono delegare le responsabilità ai tecnici, visto che gli errori degli ottimati ricadono sula politica. Qualcosa dovrà cambiare perché non si può vivere di soli bonus, ma sarà difficile intraprendere anche minime correzioni prima che sia compiuta la campagna di vaccinazione e siano delineati gli investimenti del recovery plan.
La formazione del governo appare ormai inevitabile, ed è normale che tutti i partiti chiedano un proprio posto. Non è semplice corsa alla poltrona, perché non è possibile lasciare tutto lo spazio politico ad accademici che, rispondendo solo alle proprie teorie, incrementano il vulnus democratico. Malgrado il rampante populismo mediatico, i partiti possono e devono aggiustare le decisioni dei tecnici. Al tempo stesso, sarebbe importante salvaguardare uno spazio a sinistra di questo governo. La purezza, anche solo di facciata, non può essere lasciata solo a Giorgia Meloni.
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