Governo

Lettera aperta a Giuliano Pisapia, su referendum e centrosinistra

19 Settembre 2016

Caro Giuliano Pisapia,

Le scrivo dopo aver letto la Sua intervista a Repubblica, di qualche giorno fa. Non ci conosciamo, naturalmente, e quindi mi presento: sono un cittadino qualunque, di sinistra, direi moderato, appassionato di politica ma attualmente piuttosto deluso, e non rappresentato. Non sono milanese, e ho potuto seguire la Sua esperienza da sindaco solo da lontano: mi dispiace, perché ho avuto l’impressione che siano stati anni faticosi ma ricchi e creativi; purtroppo l’esperienza amministrativa analoga alla sua a cui sono più vicino, quella genovese, si sta concludendo malinconicamente, senza poter vantare un uguale successo.

Sono le Sue riflessioni sul centrosinistra, e sul referendum costituzionale, che mi hanno spinto a scriverLe.

Vorrei incominciare dal referendum, ormai vicino; da persona qualunque, senza alcuna competenza specifica né di questioni istituzionali né di questioni elettorali, sto provando a documentarmi, e le assicuro, è davvero difficile: sento ovunque il richiamo al confronto nel merito, ma fatico a trovarlo, questo merito; quando anche ci si prova – penso al dibattito fra Giachetti e D’Alema, che ho seguito in TV – le questioni, già complicate, si intrecciano in maniera così forte a rivendicazioni politiche, forzature propagandistiche, risentimenti anche personali, da rendere tutto ancor più confuso. Fra i numerosi libri che sono usciti di recente, mi sembra che da entrambi i punti di vista, del Sì e del No, la propaganda martellante prevalga sulla persuasione argomentata.

Leggo nella Sua intervista che rifiuta le visioni apocalittiche di chi, schierandosi per il No, grida allo stravolgimento della democrazia. Su questo mi trova completamente d’accordo, almeno per quel che sono riuscito a capire: le riforme proposte dal quesito referendario non hanno affatto il carattere epocale che entrambi gli schieramenti, per ragioni opposte, assegnano loro.

Lei dà un giudizio positivo sulla riforma: ricorda come sia stata voluta dal Parlamento, e come sia del tutto sensato procedere nella direzione di una migliore governabilità e di una semplificazione dei processi legislativi.

Qui, devo confessare, la seguo un po’ meno: l’esigenza di una significativa riforma costituzionale è stata la condizione posta dal presidente Napolitano per accettare il suo secondo incarico, e questa esigenza è stata il pilastro su cui si sono poggiati prima il governo Letta, e poi quello Renzi. Infatti, il progetto di riforma è un’iniziativa governativa; l’approvazione parlamentare c’è ovviamente stata, ma con maggioranza assai lontana da percentuali che possano presentarla come voluta “dal Parlamento” (mi rifaccio ai dati contenuti nel bel testo di Guido Crainz e Carlo Fusaro, favorevole alla riforma).

Naturalmente, ricercare l’efficienza e il buon funzionamento di un qualunque organismo è sempre positivo, ma sul fatto che le norme proposte possano davvero garantirla fra gli studiosi le opinioni non sono certo concordi. Un auspicio, quindi, non una certezza.

Sicuramente, l’efficienza del funzionamento parlamentare non può prescindere da come è composta l’assemblea, cioè dalla solidità della maggioranza che sostiene un governo. Quindi la legge elettorale – sebbene non faccia parte della Costituzione – è un elemento centrale del progetto complessivo di riforma; molti hanno ricordato che spesso i sistemi elettorali sono strutturati per garantire la maggioranza dei seggi alla più forte fra le minoranze, senza che questo venga vissuto come un vulnus democratico. Quindi, è vero, gridare alla dittatura per l’Italicum è eccessivo; mi chiedo tuttavia se non siano sensate le critiche di chi vede in questa legge non una diminuzione, ma una qualificazione della democrazia in senso verticistico. A maggior ragione, mi pare, in un contesto storico in cui percentuali sempre maggiori di cittadini non si sentono rappresentati dalle forze politiche esistenti, e si rivolgono verso proposte politiche antisistema, oppure verso l’astensione. Concordo con Lei sulla necessità di modificare l’Italicum, ma non sono ottimista: temo che si andrà verso modifiche marginali – pensate più per contingenti ragioni di bottega del PD, spaventato dai successi grillini nelle amministrative – e non verso un ripensamento più complessivo, che garantisca migliore equilibrio fra le esigenze della governabilità e quelle della rappresentanza.

Concludo – e mi scuso per il tempo che Le avrò fatto perdere – soffermandomi sulle ragione politica di fondo della sua intervista: la preoccupazione per la divisione profonda che questo referendum sta producendo nel campo del centrosinistra. E’ una preoccupazione condivisibile, dal mio punto di vista, ma temo che il Suo richiamo all’unità si basi su presupposti molto deboli.

Insomma, di cosa parliamo, quando parliamo di centrosinistra ?

Se intendiamo un insieme di forze politiche impegnate in un percorso comune, non esiste più dalle elezioni del febbraio 2013. Allora c’era SEL, che si gettò nell’impresa di Italia Bene Comune con coraggio e non poche divisioni interne: la sconfitta in quella tornata elettorale, mai adeguatamente elaborata, ne ha determinato nei fatti la scomparsa. Oggi esiste Sinistra Italiana, ma ha tutti i limiti di una operazione nata a tavolino fra ceti politici dispersi; quale appeal possa avere presso l’elettorato, lo hanno testimoniato le recenti elezioni amministrative: poco o nulla. E, oltretutto, c’è ben poca disponibilità ad un percorso comune con il PD.
Il quale PD, a sua volta, si è mosso da quel febbraio proprio per andare in una direzione opposta ad un’alleanza di centrosinistra: Matteo Renzi in questi anni si è dato ad un sistematico, quasi provocatorio attacco alle posizioni della sinistra: sul lavoro, sulla scuola, e ora sulla riforma costituzionale.

Nemmeno, mi sembra, esiste un impianto “culturale” e “programmatico” forte, un insieme di principi e scelte concrete su cui si possa provare a spostare il confronto, per trovare punti di intesa ad un livello più alto della polemica quotidiana. Mi pare questa la difficoltà più grande: l’assenza nel campo socialista o socialdemocratico – non solo in Italia, naturalmente, in tutta Europa almeno – di una visione in grado di affrontare le questioni del nostro tempo in maniera significativamente diversa rispetto ai cosiddetti moderati.

Sì, esiste una porzione non piccola di “popolo” del centrosinistra che vive con disagio questa situazione, si è allontanato dal voto e dalla partecipazione, ed è doveroso cercare di recuperare; anche io, nel mio piccolo, sento di farne parte. È un popolo disorientato, certo, ma anche ferito, che è stato molte volte offeso, in questi anni.

Dubito che possa essere mobilitato da una chiamata alle armi contro “i barbari”, siano essi il centrodestra o il Movimento Cinque Stelle: il richiamo a fare fronte, al “voto utile”, può funzionare in alcune occasioni, ma non sempre, non sistematicamente. L’esempio di Milano, che lei giustamente cita a sostegno della sua tesi, è significativo, ma se ne potrebbero portare molti di segno esattamente contrario: vivo in Liguria, so di cosa parlo. Forse, chi ha sostenuto Sala a Milano, pur con il “mal di pancia”, non lo ha fatto per difendere l’idea astratta di “centrosinistra”, ma un’esperienza concreta di buona amministrazione, a cui non voleva rinunciare.

Per tutti questi motivi, credo, il Suo tentativo di ricomposizione, il Suo richiamo alla ragionevolezza, il Suo – non nascondiamoci dietro un dito – appello a votare Sì, rischia di essere vano e, mi perdoni, poco fondato. L’idea, che mi sembra di intravedere sullo sfondo del Suo ragionamento, che votando Sì e sostenendo Renzi si lavori per ricomporre il centrosinistra, mi pare poco convincente.
Costruire ponti è un’impresa lodevole ma, quando le sponde sono friabili e il cemento ha poca presa, forse anche un po’ velleitario.

Con grande rispetto, e immutata stima

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