Governo

Letta, tra sceneggiata, mancato rispetto e silenziosa promessa di vendetta

24 Luglio 2015

In ogni caso sarebbe stata una sceneggiata patetica. Le opzioni per il governo erano due: disertare la seduta delle dimissioni di Enrico Letta, facendogli un affronto, oppure inviare qualche ministro con addosso un sorriso d’ordinanza per fingere un omaggio all’ex presidente del Consiglio, tenendo conto del “rispetto” personale oltre che istituzionale. Del resto si stava dimettendo #enricostaisereno, l’uomo che ha preceduto Matteo Renzi a Palazzo Chigi, non un peones.

L’esecutivo ha scelto la prima soluzione: non ha avuto nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi e ha preferito trattare Enrico Letta come un parlamentare qualsiasi. Non si è palesato nemmeno una Boschi, non si è fatto vedere nemmeno un Delrio (che era ministro dell’esecutivo Letta) in rappresentanza del governo. La sceneggiata patetica si è limitata solo ai deputati del Partito democratico, che affollavano i banchi dell’Aula come nelle grandi occasioni.

L’ex presidente del Consiglio si aggirava sornione a Montecitorio, con l’espressione beffarda di chi sa di rivolgersi a persone che hanno assistito in silenzio alla defenestrazione o addirittura hanno ricoperto un ruolo attivo. Non dimentichiamo, infatti, che l’operazione-Renzi è avvenuta con l’avallo di Gianni Cuperlo (“Serve un nuovo governo”, disse nel febbraio 2013) e quindi di tutta l’area che fa riferimento all’esponente della minoranza dem.

L’ex vicesegretario del Pd ha così lasciato la Camera tra gli applausi di molto deputati democrat con un gesto di forte impatto mediatico. Paradossalmente, con le dimissioni, Enrico Letta sembra aver mondato ‘il peccato’ di un’azione di governo tutt’altro che incisiva in particolare nell’ultima fase. Al di là delle schermaglie va ricordato che l’impasse del suo esecutivo ha favorito la scalata di Matteo Renzi. Il segretario del Pd, fresco di benedizione alle primarie, attendeva solo l’assist per “andare in gol” (giusto per usare una terminologia cara al renzismo). Insomma, è comprensibile l’apprezzamento per un atto politicamente bello. Ma evitiamo la beatificazione.

Peraltro quel che è stato appartiene già al passato, alla storia. Il discorso del saluto lettiano, un arrivederci più che un addio, è la descrizione di un progetto politico diverso rispetto a quello cui siamo abituati ad assistere. Ha bacchettato la “cultura del tutto e subito”, che è la quintessenza del twittismo renziano. La sua momentanea lontananza dal Palazzo non è una resa incondizionata: si tratta di una maggiore libertà nella manovra politica, muovendo le leve dall’esterno. “Parigi per me è un rilancio. Non è una resa, non starò zitto, dirò la mia”, ha sostenuto. L’ex presidente del Consiglio non si è auto-pensionato, come ha fatto Romano Prodi, anche perché è ancora giovane. Molto di più rispetto al Professore.

La sensazione è che Enrico Letta, con il passo felpato del democristiano navigato, abbia optato per un esilio accademico che è anche l’attesa paziente del disfacimento dell’impero renziano. La vendetta sarà servita fredda, molto, e non si accontenterà del semplice approdo al Quirinale, come preconizzano in molti. Anzi. Da buon democristiano terrà bene in mente chi sono quei ministri che non gli hanno tributato nemmeno un omaggio, anche a costo di mostrare ipocrisia e denotando uno scarso rispetto verso le Istituzioni prima che per la persona.

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