Governo
L’eredità incontestabile di Togliatti, a sessant’anni dalla morte
In questi giorni ricorre il 70° anniversario della morte di De Gasperi. Ma anche il 60° di quella di Palmiro Togliatti. Se il ricordo di De Gasperi è segno di bon ton politico, sembra che quello di Togliatti sia urticante.
Le lacrime di una giovane deputata seduta nei banchi della sinistra quel 20 giugno del 1995 consacrarono la prima sconfitta di Berlusconi costretto a cedere il premierato a Lamberto Dini. Un voto di fiducia con le lacrime, dato a quel Ministro fino a ieri avversario, votato perché potesse succedere al nemico più inviso. Le lacrime di Marida Bolognesi restituirono orgoglio e fiducia al popolo di sinistra ma in quel comportamento c’erano due elementi vitali del comunismo italiano: l’obbedienza cieca al partito e il realismo politico. Due elementi che da sempre, dalla nascita della sinistra dura e pura confliggeranno sempre, creando distanza tra Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci, fino alla svolta di Salerno non compresa dai compagni comunisti legati all’obbedienza cieca ma combattuti se questa non fosse più votata all’ideale ma alla necessità di partito. Quanti esempi di queste apparenti contraddizioni che Togliatti riuscì ad ammortizzare con eleganza politica, spesso non compresa! Basti ricordare la votazione alla Costituente dell’Art. 7 che statuiva il rapporto tra Stato e Chiesa legittimando l’ingresso della religione nella Costituzione. Così come, da Ministro della Giustizia nel I e II Governo De Gasperi, la c.d. amnistia per i reati politici dei fascisti fu un atout di realismo lanciato più ai Colleghi di Governo che al Paese.
Erano gli anni Cinquanta in cui sull’Unità, la bibbia del comunista d’osservanza, si leggeva “La Camera è convocata giorno xy” oppure “La Camera è convocata, si raccomanda la presenza ai compagni deputati”. Ma talora “La Camera è convocata, si raccomanda la presenza ai compagni deputati senza eccezione alcuna”, tre gradi di obbligo, disciplina senza eccezioni. Per anni, anche dopo la morte di Togliatti, rigore di partito, obbedienza ideologica convissero senza traumi, tenendo soffocate molte contraddizioni, esplose poi con la ventata del ’68 ad opera di una pattuglia di militanti-deputati (Rossanda, Natoli, Pintor) che fondarono il Manifesto. La politica dello scontro mutò con il rapimento Moro, il PCI sempre più nell’aera diretta o indiretta di Governo, al diavolo le contraddizioni: i comunisti non erano al Governo ma contavano nel guscio di potere.
Un salto fino al 1995 quando le lacrime di Marida furono il segnale che i compagni aspettavano, un ritorno al passato legame tra obbedienza all’ideale, al partito e il solito conflitto con il realismo. Marida entrò nel gruppo dei Comunisti Unitari, pilotati dall’ex segretario di Rifondazione Comunista Sergio Andrea Garavini, non per niente comunista e, non per niente, torinese come Togliatti. Sergio, un ineccepibile passato di Segretario Confederale della CGIL, diede vita a “per la sinistra” con un gruppo di compagni tra cui il sottoscritto provenienti da Federazioni di RC di numerose regioni. Un gruppo nel quale regnava l’eterogeneità delle specifiche provenienze politiche e professionali ma che marciava bene perché tutti avevamo accettato obbedienza e realismo. Tanti piccoli Togliatti che diedero luogo ad un giornale “Titolo” la cui lettura richiedeva giorni di lettura ostica perché articolato in modo complesso, sinistroso, talora anche illeggibile perché l’austerità letteraria è tipica del rigore che nasconde anche una certa disinvolta superbia culturale.
Si racconta che dopo averli fatti eleggere tra gli indipendenti, Togliatti tollerasse poco le intrusioni dei Baroni Siciliani. Uno di essi che gli aveva dato del “tu” in transatlantico, fu stigmatizzato dal Migliore perché non lo annoverava tra i compagni di scuola, gli unici autorizzati a dare del “tu”. Vero o falso, se vogliamo, qualche esempio lo abbiamo registrato con i suoi “nipotini” politici, con l’unica differenza dei baffetti sempre all’insù.
Sessant’anni anni addietro il decesso per ictus che portò via Togliatti a Yalta. Precedenti traumi cranici, lo stress del Memoriale che resta un atto politico di indiscusso valore, la politica italiana sempre più stretta con i primi governi di centrosinistra che volevano mettere nell’angolo il PCI. Anche all’interno del partito molti cominciavano a pensare ad una successione, primi segnali delle ali ribelli, dunque, di insofferenza che poi 4 anni dopo diedero vita al Manifesto, insomma motivi di stress, per un uomo che aveva alle spalle decenni di dura lotta politica, ce ne erano e tanti. Pesavano anche gli anni di Mosca, le vicende dell’Hotel Luxor, il passare indenne dai fatti del 1936.
I funerali furono epici, rappresentarono la perdita del baluardo della classe operaia, il difensore di Stalin che a sua volta aveva difeso l’Europa dal nazifascismo, per poi darle un altro destino, diverso ma con molte riserve. Non ci volle molto per demonizzarlo, bastò il compromesso storico di Berlinguer, amatissimo dal popolo e da chi aveva a cuore la questione morale ma con qualche errore politico di troppo, come la scarsa fiducia nei Radicali che avevano strappato il vessillo dei diritti civili e il compromesso storico con Andreotti, una sorta di omologazione politica che snaturava la lotta dei compagni.
Ma oggi solo Togliatti resta demonizzato, in questi giorni sembra un ricordo da non ricordare, un cave Hominem che il Migliore non merita. Non lo merita per averci insegnato la politica rigorosa, forse machiavellica ma da Hombre Vertical, non lo merita per aver dato alla società italiana una coscienza sociale ed insegnamenti sulla tutela delle masse operaie che oggi sembrano desueti ma che hanno fatto crescere nei principi almeno tre o quattro generazioni.
Ne parliamo con Angelo Rossi, senatore di RC nella XII Legislatura, più volte Consigliere Regionale della Puglia, Vicepresidente della Fondazione Gramsci.
Caro Angelo, permettimi innanzitutto di darti del “Tu”, perché Togliatti è stato demonizzato? Tutti ricordano Berlinguer ma pronunciare il nome del Migliore è politically uncorrect?
Caro Aldo, la “demonizzazione” di Togliatti nasce dal rifiuto della realtà e da vezzo di inclinare a delle categorie interpretative ridotte all’unicum liberal democratico. Il realismo di Togliatti si manifesta sin dalla lettera a Gramsci del 1926. Togliatti, già da allora, prende atto che la storia non è più europea, ma mondiale e che di questa storia sono protagonisti i grandi Imperi, quelle concentrazioni di potere politico, economico e militari che si confrontano e si contrappongono su scala planetaria. Quando Gramsci critica il PCUS per la modalità di aspro contrasto interno, Togliatti gli risponde che le cose stanno così e che di questo bisogna prendere atto, poiché uno Stato solo, e che Stato, appunto un IMPERO, è la forza sulla quale possono contare i popoli soggetti e le classi oppresse. Si può negare che sia stato così? Non era l’Unione Sovietica, con tutti gli orrori del suo regime interno, lo Stato alquanto si rivolgevano per aiuto e assistenza tutti i movimenti di contrasto e di opposizione che sorgevano non solo in Europa, ma in Asia, in America latina e in Africa? Certamente l’URSS staliniana non era un modello e difatti Togliatti non c’è lo presentò come tale e come stella polare della sua politica c’era l’attenzione a questa realtà, non la sola, né imitabile, ma che contava negli equilibri mondiali. Aveva torto Togliatti? A me pare di statura gigantesca rispetto ai moderni epigoni, usciti ahimè dalla “macchina” di Botteghe Oscure. Non ti sembra?
Caro Senatore e Compagno, concordo pienamente. Cosa resta del PCI di quegli anni, oggi?
Resta comunque una lungimiranza politica ed una visione quasi da ” presbite” che vedeva lontano. È proprio il memoriale di Yalta a rivelarlo, basta leggerne alcuni stralci.
Nel suo ultimo scritto, Togliatti interviene anche su una questione oggi di primo piano: il ruolo dello Stato in Economia come controllore dei monopoli, rammentando che anche lo Stato può incorrere nel monopolio e alterare il mercato, e afferma:
…” Nel sistema del capitalismo monopolistico di Stato sorgono problemi del tutto nuovi, che le classi dirigenti non riescono più a risolvere con i metodi tradizionali. In particolare sorge oggi nei più grandi paesi la questione di una centralizzazione della direzione economica, che si cerca di realizzare con una programmazione dall’alto, nell’interesse dei grandi monopoli e attraverso l’intervento dello Stato. Questa questione è all’ordine del giorno in tutto l’Occidente e già si parla di un progrmazione internazionale, a preparare la quale lavorano gli organi dirigenti del Mercato Comune. È evidente che il movimento operaio e democratico non può disinteressarsi di questa questione. Ci si deve battere anche su questo terreno. Ciò richiede uno sviluppo e una coordinazione delle rivendicazioni immediate operaie e delle proposte di riforma della struttura economica (nazionalizzazioni, riforme agrarie, eccetera), in un piano generale di sviluppo economico da contrapporre alla programmazione capitalistica. Questo non sarà certo ancora un piano socialista, perchè per questo mancano le condizioni, ma è una nuova forma e un nuovo mezzo di lotta per avanzare verso il socialismo…”
In ambito di politica generale e del ruolo delle sinistre nella conquista del potere…
“…Nel complesso, noi partiamo, e siamo sempre convinti che si debba partire, nella elaborazione della nostra politica, dalle posizioni del XX Congresso. Anche queste posizioni hanno però bisogno, oggi, di essere approfondite e sviluppate. Per esempio, una più profonda riflessione sul tema della possibilità di una via pacifica di accesso al socialismo, ci porta a precisare che cosa noi intendiamo per democrazia in uno Stato borghese, come si possono allargare i confini della libertà e delle istituzioni democratiche e quali siano le forme più efficaci di partecipazione delle masse operaie e lavoratrici alla vita economica e politica. Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno Stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura. In paesi dove il movimento comunista sia diventato forte come da noi (e in Francia), questa è la questione di fondo che oggi sorge nella lotta politica. Ciò comporta, naturalmente, una radicalizzazione di questa lotta e da questa dipendono le ulteriori prospettive…”
(Palmiro Togliatti, Il Memoriale di Yalta, “Promemoria sulle questioni del movimento operaio internazionale e della sua unità”, Yalta, agosto 1964).
Né Angelo Rossi né io vogliamo essere considerati laudatores temporis acti ma non si può non riconoscere la insufficienza della classe politica italiana di questi tempi. Dai discorsi parlamentari a quelli comiziali ai dibattiti, traspariva cultura politica e non solo dalla parte social-comunista.
Nella mostra della Fondazione Gramsci “Togliatti Padre Costituente” (2015), il Presidente Giuseppe Vacca esplicita il ruolo che il leader comunista ebbe nei lavori dell’Assemblea Costituente, unico dirigente Comunista occidentale a lavorare per una Repubblica democratica secondo i canoni di un costituzionalismo europeo, senza cedere alle tentazioni neo-rivoluzionarie. Dopo il mini putsch di Giancarlo Pajetta che occupò nel 1947 la Prefettura di Milano, per protesta contro la rimozione degasperiana del Prefetto partigiano Troilo, quando lo incontrava in Parlamento lo apostrofava sempre dicendogli “Allora come va questa rivoluzione”! Se ne è ricordato qualche pronipotino che ha candidamente ammesso che senza il centro in Italia il governo è impossibile.
Togliatti e la cultura. Unitamente al ruolo politico di guida dell’unico partito veramente di massa, che non spaventasse i ceti moderati, Togliatti volle creare una rete di cultura laica, pur consapevole del ruolo delle organizzazioni cattoliche nelle fucine di approfondimento, aprendo le porte al mondo della letteratura, delle arti, della musica. Da Guttuso a Vittorini, a Mafai a storici e filosofi come Tronti, il filosofo della prassi e della teoria, che diede veste al movimentismo capace di attizzare una rivoluzione moderna di stampo operaio. Insomma il mondo della cultura “che contava” fu sempre molto vicino al PCI. Operai ed intellettuali, binomio apparentemente stridente ma caratterizzato dal fatto che Togliatti, come peraltro Matteotti, riteneva che anche l’operaio dovesse essere indottrinato. Una visione lungimirante di un paese che, uscito dalla barbarie del fascismo, ritrovava la sua impronta nelle arti, nella cultura, nella letteratura. Un esempio fu il rapporto irto con Vittorini ma sempre fervido di risultati con il “Politecnico” e con Renato Caccioppoli, matematico, filosofo, musicista e soprattutto nipote di Bakunin. Per Togliatti il seme culturale doveva essere sempre accarezzato e coltivato e di questo, sì, è rimasta traccia in una certa “nobile” sinistra.
Togliatti e l’identità. In buona sostanza diede alle classi operaie e quelle più deboli speranza di un mondo migliore, offrì uno sbocco di dignità a tanti salariati bistrattati da situazioni ingiuste, infine lottò per la pace alla quale dedicò gli ultimi mesi della sua vita dopo la crisi di Cuba. Tutto quanto sopra si può inglobare e racchiudere in una sola parola: identità, riconoscimento dell’ideale socialista che nel XX transita dalla incerta narrazione socialista e sfocia nella realtà politica del marxismo (socialismo reale di diceva a mò di sbeffeggio) se non dei popoli, di alcuni di essi. Questa identità, che si configura nel Migliore, tuttavia non sfociò mai nel culto della personalità e infatti non si diceva “voto per Togliatti” ma “voto PCI” ed era l’orgoglio di una generazione che voleva cambiare il mondo non sapendo che ne sarebbe stata cambiata. Chapeau al Compagno Di Liberto che da ministro della Giustizia tirò fuori dai sotterranei di via Arenula la scrivania del Migliore.
Furono i partiti di massa a creare non solo la cerniera tra il Paese e le Istituzioni ma a forgiare una classe dirigente, dalle sezioni dei piccoli centri ai nuclei dirigenti centrali, visionarie proiezioni politiche che non appartengono più ai politici della generazione millennial. Ebbene, sì, siamo dei laudatores temporis acti.
E come non esserlo laudatores temporis acti, assistendo alla miseria di oggi? Il che non significa assolvere in pieno Togliatti. L’art. 7 non glielo perdono. Ha di fatto ritardato il risveglio civile degli italiani e forse è perfino la causa della confusione di oggi. Si poteva fare diversamente? Non lo so. E solo questo dubbio lascia sospeso il giudizio. Tuttavia, sì, oggi come oggi, non vedo nessuna mente politica, in Italia, di quel livello. E questo, più che sconfortarmi, mi fa paura. In ogni caso il mondo è talmente globalizzato che quanto accade da noi è ormai irrilevante.