Governo
L’emergenza coronavirus e il rischio del paternalismo del potere
A leggere le reazioni alle comunicazioni del presidente del consiglio sulla cosiddetta “fase 2”, sembra che oramai i numeri non facciano più impressione. Eppure, si muore ancora molto. Muoiono centinaia di persone ogni giorno. E il contagio non si ferma. Anzi, secondo medici e scienziati potrebbe riprendere vigore se nelle prossime settimane non si procedesse con cautela. Non sappiamo con certezza neppure se chi ha superato la malattia abbia sviluppato una qualche forma di immunità oppure no. Siamo insomma ancora in pericolo.
Ogni ragionamento dovrebbe partire da qui. E, poiché si muore ancora troppo e siamo ancora in pericolo, non sembra ragionevole pretendere che si torni immediatamente alla normalità – il famoso riaprire tutto, insomma, al di là delle attività economiche – come se nulla fosse accaduto e come se nulla stia ancora accadendo. Tuttavia, il cauto discorso del presidente del consiglio sulla “fase 2” è stato accolto non soltanto dalle critiche che ci si potevano attendere ma anche con delusione e una certa insofferenza.
Critiche a questo governo ce ne sono state sempre, anche in passato. E anche da queste parti sono state avanzate obiezioni di fronte a certe sue scelte politiche o a certi atteggiamenti che hanno sfiorato la sgrammaticatura costituzionale. Nel corso di questa pandemia, però, accanto a critiche di natura strettamente politica hanno iniziato ad emergere sempre più nella società anche contestazioni di altro genere, spesso larvatamente percorse dalla ricerca di una rassicurazione di natura prepolitica.
Quella rassicurazione però ad oggi non è ancora possibile poiché la scienza non lo consente. La reazione in alcuni settori della società di fronte a questa incertezza ha assunto sempre più i toni della recriminazione. Di conseguenza, più che in una critica, si è manifestata nell’attribuzione di una colpa, come se per questa malattia debba comunque esserci un colpevole. Se non si può tornare a una vita normale – questo sembra, per qualcuno, il succo della questione – non è perché c’è un virus tendenzialmente letale ancora in circolazione e per il quale non c’è cura né vaccino, ma è perché il governo non sa come e cosa fare. Così, dopo i presunti untori che corrono in strada, quelli che si trovano in fila al supermercato o alla guida dell’auto per recarsi al lavoro, adesso questo meccanismo pare iniziare a colpire anche il governo.
L’irrazionale bisogno di trovare un colpevole sul quale far ricadere ogni colpa è in parte comprensibile a causa della paura e della frustrazione per le conseguenze di una cattività innaturale e prolungata nel tempo. Tuttavia, fa una certa impressione osservare anche in pezzi della classe dirigente e del mondo dell’impresa, ma anche delle gerarchie ecclesiastiche, una inquietante mancanza di adesione alla realtà. Di fronte a una situazione ancora fuori controllo e quindi spaventosa, si preferisce semplificare la realtà negandone la complessità per poter entrare più facilmente in rapporto con essa. Si riducono le scelte possibili a un «sì» o «no». Si deve riaprire tutto o lasciare tutto chiuso, e ogni ipotesi di graduare i provvedimenti nel tempo o per aree geografiche omogenee sembra essere considerata quasi un intralcio. Questo, sempre che non vi sia l’intenzione di cavalcare la paura con cinismo, come a volte sembra fare una parte del mondo politico.
In ogni caso, la sicurezza che offre la ricerca di un capro espiatorio è soltanto una illusione. Ed è una illusione tutt’altro che innocua. Oltre a contribuire alla costruzione di una realtà di per sé profondamente ingiusta, quella illusione può infatti nutrire un processo di deresponsabilizzazione individuale e collettiva.
In prima battuta, ciò rischia di far aumentare il pericolo che attualmente ancora corriamo, regalando la sensazione di una falsa sicurezza. In secondo luogo, una deresponsabilizzazione generalizzata comporta una delega nei confronti del potere che facilmente oltrepassa il confine segnato dalla politica. E questo alimenta ulteriormente la trasformazione in senso paternalistico della relazione tra potere e società.
Inoltre, questo meccanismo prelude spesso a richieste di tipo securitario da parte della popolazione e a quelle richieste chi governa può essere tentato di rispondere affermativamente, accentuando il profilo autoritario del proprio agire. La maggior frequenza di accenti paternalistici nel discorso pubblico segnala generalmente un rischio di questo genere. Non è fortunatamente il caso italiano ma, il fatto che a una richiesta di rassicurazione prepolitica che proviene dalla società il potere risponda accentuando i toni del paternalismo, resta comunque un pessimo segnale.
Intendiamoci: quella di Giuseppe Conte non è una posizione invidiabile. Il presidente del consiglio si è trovato a dover prendere decisioni difficilissime nel mezzo di una crisi assurda e imprevedibile. E sta affrontando dignitosamente la situazione dovendo fare i conti con una litigiosità dai caratteri piuttosto infantili delle forze politiche di maggioranza e opposizione, e con i mezzi piuttosto scarsi lasciatigli in eredità da chi l’aveva preceduto. Insomma, date queste premesse le cose potrebbero andare peggio di come stanno andando. Ma potrebbero anche andare meglio.
Arrivati a questo punto della crisi, infatti, dal governo ci si sarebbe aspettati qualcosa di più di un elenco di divieti offerto ai cittadini col tono del buon padre di famiglia.
Arrivati a questo punto il governo avrebbe dovuto dar conto delle proprie decisioni e spiegarle, pur non avendo comprensibilmente soluzioni immediate da offrire al di là dei divieti già noti. Avrebbe dovuto quanto meno iniziare ad abbandonare la retorica emergenziale per costruire un orizzonte, per così dire, culturale della crisi. Ed è mancata anche una illustrazione seria di una strategia sanitaria per la gestione di una solida “fase 2” con la possibilità di riaprire davvero in sicurezza molte attività. E così anche la inevitabile cautela del presidente del consiglio alla fine è apparsa ingiustamente come una mancanza di idee su come mettere l’emergenza sotto controllo.
Infine, forse la cosa più grave di tutte: continua a mancare una riflessione pubblica sui soggetti sui quali più drammaticamente in un prossimo futuro si scaricheranno inevitabilmente molte delle conseguenze di questa crisi: le donne, i bambini e gli adolescenti. Non a caso, sono tutte categorie che un potere dal carattere paternalistico – e quindi di cultura patriarcale, poiché della cultura patriarcale il paternalismo è una delle manifestazioni più pervasive – concepisce, se va bene, come oggetto di cura ma non come soggetto di diritti.
Insomma, c’è stata sinora una riflessione concentrata soprattutto sugli aspetti economici della crisi, il che è evidentemente legittimo e necessario. A questo punto però è assolutamente necessario anche il resto. A distanza di tante settimane dall’inizio della clausura, certe carenze si stanno facendo francamente preoccupanti. E questo soprattutto se la società comincia a manifestare istanze prepolitiche, mentre il vuoto lasciato dalle risposte che mancano viene riempito con accenti di paternalismo.
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