Governo

Le scartoffie possono uccidere. Renzi e la Pubblica Amministrazione

15 Aprile 2016

Ci risiamo. La parziale bocciatura da parte del Consiglio di Stato del regolamento  sul pagamento del canone tivù nella bolletta elettrica svela uno dei punti deboli, debolissimi, del governo Renzi. Il rapporto con l’Apparato dello Stato.  La questione è semplice. Per quanto si possa chiudere un occhio o non si voglia apertamente entrare in conflitto con l’Esecutivo, c’è una soglia giuridica che non si può schivare. I sacerdoti supremi del Consiglio di Stato insieme alla Ragioneria Generale e alla Corte dei Conti sono i tre molossi con i  quali qualsiasi governo deve fare i conti. Sono l’establishment amministrativo che in uno Stato a diritto amministrativo, ossia con la sovraordinazione giuridica dello Stato sul Cittadino (se ne ricordino i gagliardi giovani del M5s), possono avere davvero l’ultima parola. Questi poteri forti, fortissimi, ubbidiscono al principio asburgico indefettibile che quod non est in actis non est in mundo, e se tu governo non definisci bene cos’è apparecchio televisivo e quante volte io debba o non debba pagare il canone e per quanti apparecchi, io Consiglio di Stato, ti dico no e il tuo provvedimento te lo rimando indietro perché tu lo riveda.

Quella del rapporto del “ragazzo di Rignano” con la Pubblica Amministrazione è una questione scottante e aperta fin dall’inizio della sua avventura governativa. Riassumibile nei seguenti  termini: se ci si può  legittimamente rifiutare di governare «con» l’establishment, arduo è farlo «senza», impossibile «contro».  Capisco che l’appello populista determini  in Renzi  l’invincibile e  seducente   desiderio  di raccordarsi piuttosto che con la fredda testa dell’élite,  direttamente con la calda «pancia» del popolo, il quale per definizione pensa che le élite hanno torto: «il pesce puzza dalla testa» ama ripetere la casalinga di Voghera e l’omino al banco del mercato.  Ma ahimè è lo stesso popolo  «saggio» che non sapendo nulla di spore e di miceti e diffidando sempre e comunque del sapere di chi sa,  raccoglie  nel sottobosco le solite due specie di  funghetti  che conosce,  e quando si lancia nell’ignoto fungaceo muore avvelenato.

Ci può  anche stare la diffidenza verso un’alta burocrazia  vista come un mostro tentacolare e con occhi di brace pronta ad aprirti botole, a porgerti  polpette avvelenate e a stilettarti con la perfidia subdola delle Curie e delle Cancellerie. E non è una diffidenza mal riposta. Nell’Italia dei «Misteri dei ministeri» descritta da Augusto Frassineti  c’è questo ed altro.  Puoi, perciò,  pensare di ovviare ai «pugnali e veleni» delle Cancellerie nominando  la comandante dei Vigili Urbani del Comune di Firenze  a responsabile dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi,  e la direttrice regionale delle Imposte dirette della Toscana a capo dell’Agenzia delle entrate,  scegliendo fra persone note (e dunque fidate?), ma la selezione dell’élite  intuitu personae, per conoscenza personale, può anche sbattere sul difetto delle tue conoscenze: come fai a giudicare la bravura di molte  persone in diversi ambiti dell’Amministrazione solo con il «naso» e nulla sapendo delle loro scienze e tecniche? Puoi davvero  pensare di affidarti sempre alla fedeltà scambiandola per bravura? E così può accadere, come pare sia accaduto in passato e come accade oggi per il canone tivù, che le leggi vengano scritte male e che il Presidente della Repubblica, il cui staff legislativo è super- rodaggiato ,  ti respinga il tutto e  con paterna persuasione  morale ti suggerisca di spacchettare questo o quel  decreto omnibus e che il Consiglio di Stato ti dica nisba.

Uno dei migliori nostri Capi di Governo, Giovanni Giolitti, fu  un bravo  «tecnico»  dell’Amministrazione, oltre che un politico, seppe  cioè  instaurare con l’alta burocrazia un rapporto di proficua collaborazione e di reciproco riconoscimento con il conseguente  rafforzamento del   potere politico  tramite il suo naturale «braccio» esecutivo, quello amministrativo, nell’idea implicita che non basta cambiare il conducente perché la macchina vada secondo i  suoi voleri.  Ma Giolitti ebbe un tempo considerevole a sua disposizione, circa un quindicennio. Spesso infatti  manca il tempo per queste felici combinazioni, e perciò accade che il politico non sappia  nulla di amministrazione e gli amministratori  che sanno che lui non sa, lo aspettano  al varco, fedeli al motto «i politici passano, noi restiamo».

In Italia  è venuta  a mancare una élite amministrativa forte e  anche socialmente riconosciuta, quella che i francesi chiamano «noblesse d’État»  e che ha una tradizione risalente a molto prima della fondazione dell’ENA (Scuola di amministrazione),  ai tempi del Ministro di Luigi XIV  Colbert. Abbiamo clonato lo Stato italiano su quello francese, ma abbiamo rinunciato all’edificazione di una classe dirigente amministrativa stabile, ben selezionata e ben preparata,  fedele allo Stato più che ai  Governi, di modo che chiunque una volta entrato nella stanza dei bottoni possa dire, come De Gaulle « L’intendance suivra ». Da noi succede invece che  il politico spesso giunga «nudo alla meta» o che, quando entra  nella stanza dei bottoni,  scopra che non ci sono bottoni come diceva Nenni , perché avendo rinunciato l’Italia  a una élite statale istituzionale –  e ciò per diverse ragioni, non ultima per il fatto che la classe politica repubblicana soprattutto ha sempre voluto gli apparati deboli per meglio manovrare le clientele e i voti -, i veri bottoni del potere siano fuori dal Palazzo, nelle mani di piccole mafie e camarille ovvero degli «organigrammi informali» spesso costituiti  da poteri occulti (massonerie)  o impropri (sindacati) ma anche più modestamente da  piccole bande di faccendieri composte   da cricche parentali che si muovono sempre sottotraccia.

Nel recente passato il vero «marziano a Roma» Silvio Berlusconi, pensò bene, sbagliando, perché non solo non governò, ma anche  non amministrò,   di affidare  a ben noti plenipotenziari la noiosa incombenza del sottogoverno  (il vero potere, invece), i quali a loro volta  si appoggiarono al loro milieu di origine:  il Vaticano,  il centro selezione classe dirigente «Circolo Aniene»,  il potente il sindacato cattolico della CISL e i cari corregionali di sempre, col risultato che a questi Tigellini si devono i due terzi degli apparatcik per molto tempo  in circolazione, compreso il famoso Mastrapasqua.

Il tempo stringe, e Renzi faccia invece  come Napoleone, il quale  dopotutto si rivolse all’apparato che c’era, avvalendosi  perfino di quella «merda in una calza di seta» di Tayllerand, che gli tolse  tuttavia molte castagne dal fuoco. Visto che si è posto il termine del 2018, provi a «staffarsi» degnamente come diceva la Moratti (al fine anche di essere adeguatamente «briffato» come suggeriva la Minetti), e cerchi di  ingaggiare con discorsi chiari e netti,  ma  con lo stilo nascosto  nella manica,  quel pugno di dirigenti bravi della PA, che pure ci sono  e spesso sono tenuti nascosti dai grandi papaveri. Tony Blair si avvalse di «delivery unit» create alla bisogna,  gruppi di lavoro affidatari  di dossier specifici e che egli escuteva personalmente ogni settimana. Bene sarebbe che tenesse  un filo diretto,  per orientarsi nello Stato , con il suo maggior conoscitore in Italia,  l’ex  giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese, autore del libello dove c’è scritto tutto  ciò che occorre sapere  «lo Stato introvabile» se vuole davvero  trovare lo Stato, non perdersi come Pollicino  in  quello «gliuommero» diabolico che è il Diritto Amministrativo,  portare a casa gli obiettivi e  salvare … la pelle.

C’è Dagospia che nel suo dileggio anarcoide un giorno gli dà del “cazzone”  e l’altro del  “cazzaro” (solo in Italia ci si può permettere ciò impunemente) e lo dà con i giorni contati. Urge muoversi.

 

Sullo stesso argomento vedi anche “Vedi Renzi e poi lavori: il trionfo dei fedelissimi” di Emiliano Fittipaldi

 

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