Governo
Le Allegre Pagliacciate di Regime
Basta, vi prego piantatela. Requisite gli smartphone al Duo di Coppe del Governo, ai Toninelli sparsi per i ministeri, agli esclusi invidiosi in caccia di warholiana notorietà. Lasciateli agli amanti traditi, loro sì che ne hanno bisogno, mentre noi siamo ormai spossati, travolti nel nostro impegno di lettori e pure di commentatori social.
Fermateli: nei nostri mestieri quotidiani, non ci crederete, la politica ha, specie nelle sessioni di bilancio ma non solo, riflessi quasi immediati sulle nostre decisioni di investimento, sulle nostre aspettative, sulla gestione di una azienda. Sul nostro mutuo, sull’acquisto di un’auto, sulle rate delle nostre tasse. Nella vita noi guardiamo lungo, in politica loro scattano istantanee.
Spiegateglielo: le pagliacciate lasciano sempre un segno anche se il ricordo è travolto dalla velocità degli accadimenti, dal tweet del pomeriggio che cancella il pranzo da Fortunato, dal rinculo serale in vista della formidabile avanzata mediatica del mattino successivo come non tramontasse mai il sole, prigionieri nel consenso del popolo e dantescamente condannati ad alimentarlo sempre più sempre più con le invettive da bar della Bassa. Quei bar dove non si parla italiano ma si beve un po’ ubriachi anche dopo le 9 di sera nonostante non si venda kebab.
Di fronte alle Allegre Pagliacciate di Regime quanta nostalgia per la “Lite delle Comari” quando Beniamino Andreatta e Rino Formica si tirarono da lontano bordate inusitate su un problema vero, il divorzio Tesoro-Bankitalia e il conseguente fabbisogno di cassa, al punto da far cadere un governo. Botte da orbi sì, ma sotto l’ombrello di Shakespeare e con dichiarazioni fini di capi ufficio stampa, nemmeno portavoce, la cui cultura permetteva di largheggiare in acute e a volte occulte citazioni di classici, dove il farsi del male era una gara culturale da intellettuali della Magna Grecia e non da steward dello stadio e il governare un esercizio di potere all’interno di precisi obbiettivi. Un mondo dove le manine agivano, ma ispirate, e dove nessuno ma proprio nessuno, nemmeno se trafitto dalla notturna manina avrebbe accettato di mettere in mostra la propria inanità, riservandosi non la minaccia minacciosa della gita in Procura ma la stilettata al congiuntivo nel prossimo decreto.
Un mondo dove la discussione sul “governo dei tecnici” non era un’accusa di colpo di stato ma la sottile distinzione sostenuta in una intervista da Bruno Visentini tra il “governo di politici” e un “governo di competenti” dove il ministro era certamente politico, sicuramente eletto, ma secondo il Professore doveva avere una ancorchè minima conoscenza della materia che amministrava: per potersi intendere con i capi della burocrazia ministeriale, perlomeno.
Non è nostalgia del bel tempo che fu, perché la Prima Repubblica naufragò ignominiosamente con il più rigoroso degli interventi politici in Parlamento, quello di Craxi sulla fiducia al Governo Amato. È la voglia di normalità (non dalemiana), la voglia ormai insopprimibile di una tregua della parola che nasce per un dibattito politico che ha sfondato le regole della decenza e della convenienza ancor più del bilancio dello Stato; un dibattito di insopportabile natura elettorale, come fossimo non a cabine trasparenti ma urne sempre aperte, dall’eterna (o eterea, fate voi) assenza di qualsiasi giudizio sul contenuto perché ciò che è ignobile non è che vi sia la depenalizzazione ma che vi sia il premio per chi ha evaso e una banale rateizzazione, che esiste in tutto il mondo e senza decreto, per chi non ha evaso, non ha imbrogliato, non ha rubato ma è rimasto senza quattrini per le più diverse ragioni (e dopo 10 anni di crisi le ragioni vi sono eccome, a partire dalla pressione fiscale in se stessa).
Ma anche calasse il silenzio sul decreto, magari per decreto d’urgenza caro Presidente Conte, sappiamo che la mattina successiva in una ansia da prestazione insopprimibile, in una rincorsa bulimica alla legittimazione da parte della propria fazione (perché ormai non sono partiti, sono fazioni nelle fazioni come i guelfi di parte bianca, di parte nera e servisse pure un po’ sbiaditi) il Duo di Coppe ricomincerà a twittare come cameriere presuntuose e non come comari facendoci rimpiangere financo il biondo parrucchino di Trump.
E allora, evitando di cadere nella stupida trappola delle stupide élite che ora maledicono il suffragio universale e tra poco la libertà di parola, non potendo usare la cera di Ulisse perché qui non è il sensuale richiamo delle Sirene ma, come direbbe un amico, “so’ sordi” nel senso di soldi e non di sordi, cerchiamo di comprendere perché a costoro tutto è concesso: lo è perché dall’altra parte non esiste un’altra parte. La democrazia funziona se c’è una maggioranza, e quella la abbiamo, e una minoranza, e questa non esiste. Ci fosse, gran parte degli smartphone tacerebbe perché non sarebbero più concesse al Duo di Coppe le Due Parti in Commedia.
Senza una alternativa credibile continueremo a leggere sui siti degli ex giornaloni non più retroscenisti raffinati, velinisti consumati, articolisti dalla penna rossablu ma, come sta accadendo in questo momento, pezzi postati grazie al rapido copia-incolla dei tweet, dei post, dei thread e del voyeurismo whatsapparo. Oltre che a vedere affondare il Paese, sia chiaro con noi dentro legati alle catene, quelle social si intenda.
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