Benessere
L’arte al tempo del Sacco di Roma e di Matteino
Leggere il determinato pezzo di Chiara Galloni sull’ arte contemporanea come incidente è stato come trovare sull’unico appiglio che mi è rimasto uno sguardo fino a quel momento straniero. Avevo da tempo maturato la convinzione che l’Italia si sarebbe salvata solo attraverso la somma di destini individuali di successo e non con un potente e coordinato colpo di reni. Mi sbagliavo, perché per il colpo di reni serve un idem sentire della società, forte come lo fu il Risorgimento, l’unico momento di straordinaria coesione intellettuale così intensa da cancellare (o rendere invisibile e comunque secondaria) la convergenza di interessi particolari di una parte del suo gruppo dirigente.
Sed etiam nei destini individuali deve accadere qualcosa di… collettivo. Il collettivo è la consapevolezza di chi non sa come tirarci fuori con un colpo di reni nel lasciar fare al corpo sociale, nello scatenarne la innata pulsione di ognuno di noi ad interpretare la propria vocazione come un’opera d’arte, nella pretesa che la vita di ognuno di noi sia unica e irripetibile. Solo la somma di queste opere d’arte, dove ognuno dà se stesso sino in fondo avrebbe potuto costruire nei prossimi anni una Italia diversa, ugualmente “immorale” (o se stessa) nelle viscere ma in grado di sopportare i Borgia grazie a Michelangelo. Per ottenere questo miracolo però serve Venezia dopo il sacco di Roma, serve cioè che ancora qualcosa di collettivo comprenda di lasciar liberi gli spiriti, di metterli di fronte a se stessi e non ad altro.
Matteino non lo comprende, passa il Natale a ridettare leggi e decreti perché il dettarli non basta più in un paese che non regge le disuguaglianze stratificatesi negli anni: quello che doveva essere un sistema socialdemocratico o cattolico statuale o comunque al riparo del rischio grazie al suo welfare si è trasformato in una società dove lo stato è un ladro, le ineguaglianze sono vissute con invidia come una offesa, sono viste come odioso privilegio altrui e sgarbo proprio, come lesione della propria personale opera d’arte. Sono le diseguaglianza che ci stanno facendo a pezzi (questo non ha capito Matteino), il paese si è frantumato a tal punto che non è più guelfo o ghibellino, berlusconiano o anti berlusconiano ma ognuno contro ognuno, dall’aereo di stato alla furbizia del certificato. Facebook è pieno di petizioni, di insulti, di troll, di italiani dove l’idiozia non ha più sanzione o benevola copertura e l’egoismo della sopravvivenza diventa non ancora manifestazione pubblica ma comportamento individuale al limite del conformismo. Matteino pensava che la logica generazionale fosse una lettura della società: si sbagliava grandemente, pochi, pochissimi oggi sanno forse intuire ciò che fermenta ma non viene intellettualmente assimilato nelle viscere dell’Italia, lunga, larga, stremata e animata dalla rinata speranza di fuggire altrove o nascondersi per sfuggire perché qui non si può.
Se nessuno ha la credibilità di spiegarlo sulle colonne di un giornale, se nessuno sa farlo in una aula di università, se non esiste un congresso (non primarie) con cui scegliere una proposta elettorale, se non c’è intellettuale discusso ma autorevole e le stelle cadono e i fuochi fatui brillano nel cimitero della politica e della finanza come fossero fari nella notte di tempesta allora non ci resta che attendere “cosa succede quando l’arte contemporanea incrocia, più o meno violentemente, la vita vera, la vita “seria”, la quotidianità di quel buon 80% degli italiani che la considerano – come del resto la cultura contemporanea in generale – un divertissement nel migliore dei casi, o un inutile, costoso orpello nei peggiori?” (Galloni incipit)
Se al gruppo dirigente italiano non basta più la parola né per produrre, né per capire, né per capirsi e farsi capire allora, forse, l’arte del reale contemporaneo nel suo durissimo e comunque provocatorio impatto con la realtà virtuale del potere (virtuale perché non si pone mai un problema di realtà sentendosi intimamente tale) potrà aiutarci a comprendere qualcosa di ciò che accade. Un artista oggi non ha più il problema della committenza dei frati minori o del maggior sovrano, una committenza che dava perimetri precisi alla renovatio artistica dove il genio era un po’ nel saper turlupinare con maggiore intelligenza il committente rendendolo orgoglioso di qualcosa che intimamente lo sbeffeggiava. Il mercato rende l’artista più libero, non libero ma più libero. Bene, ci aiutino, ci aiutino a capire questo paese senza senso e privo di sensi. Aiutino il piccolo colpo di reni, non anticipino ma creino una lente meravigliosa con la quale intravvedere e fare intravvedere quanta libertà in più servirebbe in Italia per far sì che ognuno di noi torni ad essere la propria opera d’arte.
Noi con le parole scritte non ci riusciamo più; sì, serve proprio un miracolo, serve quell’appiglio sulla parete sul quale abbiamo posato l’occhio, un appiglio come lo può essere nella sua sfacciata presunzione, nella sua forza comunicativa, in uno spazio preciso, in un tempo anomalo, con un linguaggio inedito (ibid.) una opera d’arte anche contemporanea.
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