Governo
La politica dei sussidi, un modo sbagliato (e italiano) di affrontare i problemi
Approfitto della mia permanenza nel Regno Unito per sottolineare una fondamentale diversità nella logica dell’utilizzo dei sussidi tra il nostro paese – “è successa una cosa brutta chiediamo aiuto al governo”, che poi si trasforma nel classico “paga (per sempre) pantalone” – e quanto vedo accadere da quando mi sono trasferito qui.
Nel corso del congresso del partito laburista conclusosi il 5 ottobre a Manchester il premier Boris Johnson – che per evitare qualsiasi malinteso “politico” apprezzo pochissimo per molte delle sue scelte passate, a cominciare alla Brexit – ha annunciato la sospensione del sussidio di 20 sterline la settimana che era stato concesso dal governo a svariati milioni di famiglie per affrontare gli effetti (perdita temporanea o definitiva del lavoro o riduzione del reddito) della pandemia.
Lo stesso annuncio è stato corredato da una serie di dati in merito agli incrementi della spesa per il Sistema Sanitario Nazionale (la NHS) a seguito del Covid ma anche a causa della necessità di ammodernare e migliorare i servizi ai cittadini – si parla, tanto per quantificare la cosa, di circa 6 miliardi di sterline, ovvero, ai cambi correnti, un po’ più di 7 miliardi di €.
L’annuncio ha ovviamente suscitato un vespaio politico a cui il governo di Boris Johnson, tramite un’intervista alla BBC di uno sei suoi ministri, ha risposto in modo molto semplice e a mio parere esemplare pur in presenza di quello che probabilmente è un errore sia politico che di implementazione in quanto non si può fare una scelta come questa da un giorno all’altro e senza un congruo preavviso. La sintesi (mia libera interpretazione) è la seguente: la pandemia è sotto controllo, l’economia è in crescita, c’è ampia domanda di lavoro: perché dovremmo continuare a spendere soldi per un sussidio che pre-pandemia non c’era e che quindi non ha ragione strutturale di esistere quando chi si ingegna (in italiano volgare “chi ha voglia di sbattersi”) può riprendere a lavorare?
In questi giorni l’Economist sta seguendo con attenzione l’evoluzione del prezzo del gas e dell’energia che sta creando tensioni in tutto il mondo e che tra l’altro ha portato sull’orlo del fallimento molti dei broker che in UK, a valle della liberalizzazione del mercato, sono i principali fornitori di elettricità, e in misura minore di gas, ai cittadini. Si sta infatti discutendo se supportare oppure – e sembra essere questa la tesi prevalente – lasciare al loro destino tali operatori, mentre il governo si impegnerebbe temporaneamente a supportare le forniture, comunque a prezzi di mercato, ai cittadini.
Nell’ambito della analisi delle diverse scelte dei governi su come affrontare la crisi, il settimanale inglese ha pubblicato un pezzo molto interessante in cui si lasciava intendere che la scelta del governo italiano di sussidiare le bollette con 3 miliardi di €, annunciata qualche giorno fa dal ministro Cingolani, fosse fondamentalmente errata. Anche qui riassumo (altra mia libera interpretazione a beneficio di chi legge), le argomentazioni a tal proposito: se il prezzo dell’energia sale, vuoi per questioni di domanda ed offerta, vuoi per questioni strutturali di transizione ecologica (a cominciare dall’atteso incremento del prezzo dei certificati sulle emissioni), l’obiettivo non può essere quello di correggere artificialmente il prezzo, ma deve invece essere quello di incidere sul comportamento dei consumatori e in ultimo sulla domanda di energia. Questo significa incentivare i comportamenti virtuosi – perché ognuno di noi deve avere e quindi caricare due telefonini? Perché si sente l’esigenza di mettere il riscaldamento a 23 gradi o l’aria condizionata “a palla” quando a 20 gradi si vive bene lo stesso, magari con un maglione in più o con una maglietta in meno?
In tutto ciò, come sempre, entra l’elemento politico di breve termine – leggi consenso elettorale; non dimentichiamoci infatti il caso dei gilets jaunes in Francia, che sono nati sulla scorta di una protesta, comprensibile se si guarda il particolare, ma del tutto ingiustificabile se la si guarda in un’ottica generale e di medio periodo, contro l’incremento dei prezzi dei combustibili più inquinanti. Risultato la protesta ha provocato la marcia indietro del governo su temi che invece, volenti o nolenti, dovranno essere affrontati.
Conclusione: se vogliamo essere seri e, come dicono da queste parti, “put our acts where our mouth is” dobbiamo cercare di guardare alle vere cause dei problemi e come tali affrontarli con serietà anche se questo può dare fastidio a certi strati della popolazione (leggi di bacini di voti). Non si possono usare (male) le sempre più scarse risorse pubbliche per permettere a certi gruppi (di elettori) di mantenere privilegi che, in un’ottica della comunità, sono del tutto ingiustificati e per cui, ognuno di noi deve essere disposto o a rinunciarvi o a pagare di tasca propria. In termini italici (e l’elenco dovrebbe essere molto più lungo) questo significa dover inquadrare e rivedere in un’ottica di serietà e sostenibilità la valutazione di scelte “politiche” come reddito di cittadinanza, quota 100, no ai ticket sanitari, sussidi alle rinnovabili (compresi gli scarti delle raffinerie), cassa integrazione fino al 2025 per i dipendenti di Alitalia, no salviniano alla riforma del catasto, no all’obbligo dei vaccini e del green pass… pur tenendo presente la necessità di una equità sociale che però non può significare il mantenimento di uno status quo insostenibile a meri scopi elettorali.
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