Governo
La glassa per il Mezzogiorno
La discriminazione territoriale, in Italia, non è argomento da dibattito pubblico. Al più, lo diventa quando degli ultras intonano cori tematici. Con gli arbitri che interrompono le partite, i cronisti che stigmatizzano il misfatto e i professionisti del politicamente scorretto che minimizzano.
Il tutto dura qualche minuto, giusto per riempire i tempi morti. Non ammissibili, si sa, dalle moderne grammatiche televisive.
“Delinquenti”, dicono. “Pochi facinorosi”, sottolineano. “Sparuta minoranza”, rafforzano. “Ignoranti”, chiosano. Pochi, eppure rumorosissimi, aggiungiamo noi. Muniti di corde vocali palestrate. Di amianto. Dopodiché, l’arbitro fischia, il gioco riprende, il giocattolo guasto pure e, voilà, rimozione collettiva. Senso critico in preda alla stitichezza.
Ciononostante, la discriminazione territoriale, così come la conosciamo dalla recente inchiesta di Report, dal rapporto della SVIMEZ e dai livelli occupazionali da bollettino bellico, pare tutt’altro che una roba da curva. Essa sembra essere, piuttosto, un comportamento sistemico. Pianificato. Sintetizzabile a meraviglia con le recenti parole, in ambito extracalcistico, di Provenzano, ministro per il Sud: “È la radiografia di una frattura profonda, trascurata in decenni di disinvestimento pubblico nel Mezzogiorno che hanno prodotto, con la sofferenza sociale e l’arretramento produttivo nell’area, un indebolimento dell’Italia nello scenario europeo e la rottura dell’equilibrio demografico”.
Tra le righe: la celeberrima “Questione meridionale” non è mai stata una priorità. Fatta eccezione per i cairologici periodi preelettorali, fucina di glassa propagandistica.
Possibile riformulazione meno morbida: i governi passati e i governi recenti, con la complicità delle classi dirigenti autoctone, se ne sono strafottuti del Mezzogiorno, per dirla con un feltrismo, pompando capitali laddove già si produceva e ignorando quasi totalmente le aree depresse del paese. Altro che discriminazione da stadio, l’unica a raccogliere l’indignazione del mainstream!
Insomma, un vecchio adagio. Talmente vecchio da far sembrare la “Questione meridionale”, anche agli occhi dei meridionali medesimi, un problema ontologico, non un fenomeno circoscritto storicamente.
Un fenomeno, peraltro, mai sanato, sorto proprio in concomitanza dell’unità d’Italia. E non per caso, ma grazie all’attuazione, all’epoca, da parte del nuovo stato unitario, di una capillare, nonché strategica, deindustrializzazione del Sud e di un aumento significativo della pressione fiscale. Tutto ciò, in un quadro economico già fortemente compromesso dalla guerra d’annessione.
Replica: “Ne è passata di acqua sotto i ponti”. Certo, ma considerando la mancanza di servizi e infrastrutture, la crisi demografica, il tasso di povertà, la latitanza di politiche industriali ragionate, il dirottamento della quasi totalità degli investimenti pubblici verso l’altra parte del paese, quella più ricca, e l’emigrazione strutturale, viene da pensare che certe dinamiche siano dure a morire, che la subalternità del Sud sia ormai data per scontata, che il Sud medesimo, alla fine dei conti, si sia convinto di essere in perenne ritardo perché geneticamente sfaticato. E non perché, al netto delle proprie consistenti responsabilità, si sia fatto di tutto per aumentarne il divario con il Nord.
Da ultimo, l’applicazione della “legge Calderoli” sul federalismo fiscale a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione. Una legge che, lungi dal favorire la redistribuzione delle risorse in virtù del principio di solidarietà nazionale, premia, invece, la spesa storica, garantendo più fondi, per paradosso, proprio a chi fornisce più servizi.
Scarnificando il provvedimento ne viene fuori la logica profonda, la solita: è inutile erogare finanziamenti laddove non ci sono servizi da finanziare. Capito?
Inutile, quindi, investire al Sud, terra di spopolamento, di cattedrali nel deserto, di pressioni mafiose, di reti ferroviarie e collegamenti stradali da terzo mondo (carenze infrastrutturali che, per bacco, risentono a loro volta di mancanza di investimenti, e così via, all’infinito). Molto meglio puntare su ciò che già funziona.
Lo pensano, in primis, i meridionali. Che, infatti, votano in massa per la Lega. Un partito che li chiamava terroni fino a ieri teorizzando la superiorità della stirpe nordica e che, nel frattempo, proprio nel meridione improduttivo, sta sfornando una classe politica rampante vicina, in alcune circostanze, al crimine organizzato. Fatalità.
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