Calcio

La dura legge di Renzi e Totti, intoccabili che non toccano palla

20 Aprile 2016

Si può essere sempre al centro del gioco senza toccare mai palla? A giudicare da quanto sta accadendo in Italia, in particolare a Palazzo Chigi e Trigoria, sembrerebbe proprio di sì.

Il nostro, si sa, è un Paese strano. Nel commentare a caldo i risultati del referendum di domenica scorsa, il Presidente del Consiglio ha definito l’Italia una “meraviglia”, uno “scrigno”. Poi, con il cuore in mano, ha fatto appello a tutti gli uomini di buona volontà perché “questo gioiello di Paese torni ad essere un punto di riferimento unico nel mondo”. Nelle stesse ore, in un altro pezzetto della capitale, si consumava l’ultimo capitolo del braccio di ferro tra Francesco Totti (d’ora in poi, “il Capitano”) e il suo allenatore pro tempore Luciano Spalletti.

Sono tante le cose che Matteo Renzi e il Capitano hanno in comune, soprattutto in questa fase della loro carriera in cui le categorie di ascesa e declino sfuggono alla logica e la Storia, in tutte le sue molteplici accezioni, viene brandita come una clava.

Matteo Renzi ripete in continuazione che la vera forza dell’Italia è la sua inarrivabile bellezza. Per il momento è quella del passato, perché il presente è pessimo oltre ogni ragionevole dubbio, ma non bisogna perdersi d’animo: il futuro è nelle nostre mani (o in quelle a cui lo affideremo). La Storia siamo noi, no?

Anche il Capitano è la Storia. Da non romano, forse, sarebbe più saggio da parte mia tenermi a distanza di sicurezza dall’argomento (ammesso che una distanza di sicurezza esista in un Paese dove la moglie di un allenatore viene minacciata mentre fa la spesa perchè il marito non garantisce il posto alle Bandiere). Il fatto che il Capitano abbia fatto la Storia della AS Roma è acclarato. Stiamo parlando del numero dieci più dotato della sua generazione, sostenuto da tecnica eccelsa, buon fisico e, all’occorrenza, eccellenti ghostwriters.

Quando s’è trattato di scegliere tra Re di Roma oggi o Pallone d’Oro domani, il Capitano non ha avuto dubbi. E fu subito Bandiera. Non sapremo mai cosa s’è perso, ma sappiamo con certezza cosa ha guadagnato: una città ai suoi piedi e il vezzo di raccontarla come una scelta di vita dettata dal cuore e non dal calcolo, ponderato e legittimo, di aspirazioni e limiti caratteriali. Purtroppo, quando l’amore assoluto diventa fede cieca, non s’accorge più dei nodi. Era inevitabile che anche per il Capitano, prima o poi, venissero al pettine. Alla soglia dei quaranta, si può ancora garrire come un tempo? Che trattamento spetta alle Bandiere? Sta a loro deciderlo oppure alla società? O magari ad una città intera?

Anche Matteo Renzi è un politico di gran classe, il migliore della sua generazione. A differenza di Francesco Totti non ha mai voluto essere una bandiera per la propria squadra. In politica, più che la fedeltà all’idea, conta la capacità di leadership. E quella all’ex capo scout non è mai mancata.

Quando s’è trattato di scegliere tra la squadra di appartenenza o quella nazionale, Renzi non ha avuto dubbi. E Letta fu. Non sapremo mai quanto ci fosse di pianificato fin dall’inizio, ma abbiamo davanti agli occhi i primi due anni di governo: pressing asfissiante in ogni zona del campo (con qualche colpevolissima eccezione) e tanto gioco in verticale che però non sempre arriva davanti alla porta. Per non parlare dei goal. Quanti se ne possono contare? Forse il primo ad essere deluso dal punteggio è lo stesso Presidente del Consiglio, se è vero che è sempre sulla sua persona che richiama i riflettori. Non c’è niente di meglio della leadership, soprattutto quando non si riesce a governare.

Da secoli l’Italia è un paese senza memoria. Eppure chi di volta in volta si intesta il futuro lo fa sempre con la testa rivolta all’indietro. L’impressione è che l’amore quasi ossessivo per le radici sia dovuto alla loro prerogativa di mantenere la pianta ancorata al terreno più che a quella di portare nutrimento ai nuovi germogli. È in questo contesto che il pubblico preferisce di gran lunga schierarsi invece che capire, cercare alibi in un passato confortevole invece che interrogarsi su un futuro incerto da costruire.

Da questo punto di vista il Capitano e il Presidente del Consiglio sono due facce della stessa medaglie. E purtroppo il pubblico che li ama e li odia senza risparmio è tutto dalla loro parte. Dico “purtroppo” perché troppi applausi fanno malissimo alla salute, anche quella democratica. Per una società calcistica con la paura di crescere, non c’è niente di peggio di una grande Bandiera con la paura di invecchiare. Per un Paese che un mattino di qualche anno fa s’è svegliato senza un pezzo di memoria (chi si ricorda più che siamo tutti figli e nipoti di una generazione di migranti?), non c’è niente di peggio che richiamare la Storia solo quando fa comodo. Una Storia che è come le Bandiere: va onorata a prescindere, anche se non si sa bene cosa significhi. Ognuno dice la sua e, a forza di marciare, nessuno sa più dove sta andando. Che futuro desideriamo? Di quali obbiettivi stiamo parlando? Conta solo la velocità o anche la direzione di marcia? Se ne può discutere o si avanza a occhi chiusi e plebisciti sempre aperti?

Le guerre di religione non sono mai state il contesto più adatto per porsi delle domande. E così, tra un bullismi e piagnistei, conferenze stampa e frasi rubate, il Presidente del Consiglio e il Capitano vanno dritti per la loro strada. Entrambi si sentono la Storia, ma nessuno ha ancora chiarito come intende riempire il futuro. Un futuro che – forse vale la pena ricordarlo – non è soltanto loro.

 

 

 

 

 

 

 

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