Governo

La crisi di agosto e il senso di precarietà della politica italiana

2 Settembre 2019

Salvini, azzoppatosi da solo, si dimostra inadatto a governare l’Italia. Pd e M5s da acerrimi nemici ad alleati obbligati per impedirne il trionfo, ma Rousseau potrebbe ribaltare tutto. Il sistema politico italiano è fuori controllo e il paese ingovernabile.

 

 

Non è facile valutare l’esito dell’operazione politica che sta battezzando, sorprese permettendo, la nascita del governo Conte bis. E’ inutile pensare di essere ottimisti o pessimisti, data la gran quantità di variabili in gioco e lo spazio temporale di medio periodo in cui tale operazione dovrà essere giudicata. La politica e il consenso popolare corrono ormai a velocità altissime su binari difficilmente prevedibili, come la crisi di agosto ha ben dimostrato.

 

Un Salvini lanciatissimo da consenso popolare e mediatico verso sicuro trionfo elettorale e successiva automatica premiership è stato implacabilmente disarcionato da una sorprendente e spregiudicata inversione a U di Renzi in convergenza con il nuovo verbo dell’”elevato” Grillo. Preparata la strada, Zingaretti ci si è infilato rilanciando e Conte, da perfetto democristiano “uomo per tutte le stagioni” quale è, ha consumato la vendetta sul “Capitano”, con buona pace dell’ormai quasi bollito Di Maio, orfano del compare vicepremier. Il tutto con i migliori auspici di Quirinale, Ue e forse persino Usa (alla faccia dei sovranisti che gongolavano dopo il viaggio di Salvini a Washington).

 

Il Conte bis nasce da due debolezze e dalla prioritaria necessità di non regalare l’Italia (e il Quirinale) a Salvini. Il gioco può valere la candela, diversamente dalla follia di un ipotetico governo tecnico di pochi mesi, che fortunatamente non si realizzerà. A patto che il Pd riesca a far emergere la parte più ragionevole e pragmatica del M5s e che quella velleitaria e demagogica si limiti a tweet e dirette Facebook. Non sarà facile e assisteremo probabilmente ad una lite continua, anche perché i grillini potrebbero subire ulteriori emorragie di voti di chi considererà l’abbraccio con il “partito di Bibbiano” un tradimento. Molto dipenderà da quanto Conte, ormai legato apertamente all’establishment europeo, riuscirà a guidarli, visto il discredito che Di Maio ha ormai tra i suoi. L’obbligo per entrambi è durare, almeno fino al 2022 (basta anche fino all’estate 2021, poi c’è il semestre bianco), altrimenti sarà difficilmente evitabile la mattanza elettorale. Ai Democratici tocca turarsi molto bene il naso e tuffarsi realisticamente nel meno peggio. Riduzione responsabile della tassazione per imprese e lavoratori, legge su rappresentanza sindacale, ambiente ed economia circolare, innovazione e industria 4.0, investimenti infrastrutturali, abrogazione delle storture dei decreti sicurezza. Da qui si potrebbe partire e trasformare l’operazione in una positiva stagione di riforme, anche in virtù di un probabile occhio benevolo da parte di Bruxelles, ma di certo le divergenze programmatiche e valoriali, oltre che le diverse convenienze elettorali non tarderanno a presentarsi.

 

 

Le forze sovraniste italiane di Salvini e Meloni, a un passo dalla vittoria elettorale e dalla formazione del governo più spostato a destra della storia repubblicana, si ritrovano quindi entrambe all’opposizione, gridando al solito complotto di oscuri poteri internazionali e lamentando la scelta di non andare al voto. Forse, almeno il leader della Lega, farebbe bene invece a riflettere sui propri errori. Matteo Salvini non può che rimproverare sé stesso per l’andamento della crisi di governo da lui provocata. Si è fatto clamorosamente giocare da grillini e Pd, con il concreto appoggio di ambienti istituzionali romani e cancellerie europee e perfino americane, sull’onda di un senso di onnipotenza che, dopo il voto di maggio, non ha conosciuto limiti. Evidentemente pentito dall’errore (va detto, ampiamente incoraggiato da tutto il suo partito, mezzo establishment e buona parte del sistema editoriale italiano) compiuto con l’apertura della crisi, ha poi improvvisamente ingranato la retromarcia, arrivando addirittura a proporre la premiership a Luigi Di Maio dopo aver accusato il M5s di essere il “partito del no” con cui non si poteva governare. Non contento, ha accusato i “congiurati” di aver preparato la manovra da tempo. Viene da chiedersi come mai gliela abbia servita su un piatto d’argento. Un “Capitano” che ha perso completamente la rotta, verrebbe da dire. Questa è una dura lezione per Salvini e la destra italiana: non si raggiunge e mantiene il governo di un paese come l’Italia con una politica sovranista e populista non in grado di fare i conti con il sistema istituzionale italiano ed europeo, con i punti di riferimento di politica internazionale, con la realtà.

 

L’Italia sta continuando a scoprire oggi gli effetti di un sistema politico tripolare inaugurato nella sua pienezza il 4 marzo dello scorso anno, in cui nessun attore ha i numeri per governare da solo, né per essere parte imprescindibile e insostituibile di una maggioranza. Tale assetto si combina con una netta prevalenza di consensi verso formazioni populiste anti-sistema che si sono poste in questi anni in virulenta contrapposizione, oltre che tra loro, nei confronti delle forze dominanti nel nostro paese negli ultimi venticinque anni, aizzando verso di esse la rabbia, l’odio e il rancore dei propri elettori. E’ evidente come questo modo di fare politica mal si concili con la necessità di instaurare il dialogo parlamentare con l’avversario e, ancor più, con l’idea di costituire con esso, a urne chiuse, un programma comune di governo per guidare la nazione, come sta invece avvenendo in questi giorni. Da qui nascono le resistenze, i dubbi e il rifiuto da parte di una cospicua parte dell’elettorato di Pd e M5s che, nel caso del secondo, tramite l’imminente voto sulla piattaforma Rousseau potrebbero addirittura far deragliare l’intera operazione. Viene da chiedersi (ma già era evidente dopo il 4 marzo scorso), da un lato se un paese in queste condizioni sia realmente governabile, dall’altro se lo iato tra la spregiudicata “flessibilità” strategica dimostrata da tutti gli attori in campo e un minimo di necessaria coerenza programmatica e valoriale non rappresenti un ulteriore (l’ultimo?) chiodo sulla già quasi pronta bara della credibilità dei partiti politici italiani.

 

Oggi è quindi impossibile dire chi avrà avuto ragione. Tra qualche mese, oppure anno, forse, ce lo dirà la Storia. Nessuno, potrebbe essere la risposta.

 

 

 

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