Governo
Jobs Act ovvero del perché in inglese tutto è beautiful
Da bambini si faceva un gioco. Si prendeva una parola o una frase che tradotta in un’altra lingua avesse il potere di suscitare ilarità, per associazione o semplice assonanza. Certo in italiano la frase o parola in questione avrebbe dovuto avere (un minimo di) senso compiuto. Bastava poco insomma e il gioco era fatto. Ed ecco che, durante la lezione di inglese, citare a sproposito la presenza di gatti nella scuola generava all’istante un intreccio di occhiate complici e risolini maliziosi tra i banchi.
Ora che i banchi non sono più quelli di scuola ma quelli del Parlamento e che i gatti sono diventati i nostri, non ci fanno più tanto ridere. Vi racconto un episodio.
Qualche giorno fa mi trovavo sul treno Alta Velocità per Bologna. Dopo qualche minuto dalla partenza, l’altoparlante annuncia solenne l’arrivo nelle carrozze del Train Manager.
Panico. Un cicaleccio nervoso si fa largo tra i passeggeri. La signora accanto si rivolge a me con fare preoccupato: «Oddio! Sta arrivando il manager e non ho neanche un filo di trucco!». Un arzillo signore seduto al mio fianco – probabilmente un vecchio sindacalista o solo un simpatico rompiballe – è già pronto ad incalzarlo con la sua invettiva. «Ora che arriva gliene dico quattro», ripete agitando in aria il suo bastone. «Novanta euro per un biglietto, poi vado in bagno e non c’è neanche la carta!». Tutti agitati insomma, per l’imminente arrivo del Train Manager. Anche io, devo ammetterlo, tradisco un po’ d’emozione, mentre un giovanotto seduto due file più avanti aveva già nelle mani il curriculum da consegnare all’insigne dirigente.
A un certo punto si alza un coatto (probabilmente proveniente da The beautiful nun tower) con fare disumano: «Cacchio, ce sta er controllore!!».
«Bijetti! Bijetti!», si sente gridare dal fondo della carrozza. In effetti, il Train Manager altro non era che il vecchio capo treno, ora insignito di un nuovo, scintillante titolo. Perché in inglese tutto è beautiful. I passeggeri si sentono più tranquilli con un Train Manager. E noi (compagnia) sembriamo più fighi. Anzi cool.
Ecco, io me li immagino più o meno così i nostri politici, quando si accingono a scrivere (perché lo scrivono loro, vero?) un disegno di legge.
«Aò, ma che c’avemo messo qua dentro?»
«Boh!! Ce sta un sacco de robba!! »
«E mò come la chiamamo?»
«Damoje un nome figo! Che poi tra quarche anno, quanno se parlerà de’sta legge se ricorderanno che l’avemo fatta noi!»
«Che ne dici de Nuova legge in materia di trasporti».
«No, no, troppo arcaico!»
«E allora mettemoce in mezzo pure Mobilità Sostenibile. Dice che adesso si usa».
«Mmm…no, pare er nome de ‘na malattia intestinale. Anzi famme grattà!»
«Senti ‘n po’: ma se lo chiamamo Smart Act?»
«Come ‘a machina?»
«Sì, ma pe dì intelligente!»
«Ah vabbè. Sì, me piace».
«E allora chiamamola Smart Act che è meglio, così nessuno capisce che ce sta dentro».
«Manco noi».
«Esatto! Ma così poi tutti credono a quello che je dimo in televisione».
«Perfetto famolo!».
E giù a dar di gomito e a ridacchiare. Sì perché le parole sono importanti, come urlava Nanni Moretti. E in taluni casi, l’uso che ne viene fatto può anche stravolgerne il senso. Per farsi una risata, ma anche per nascondere una scomoda verità. E allora, da sempre ma forse oggi più che mai, ci tocca fare attenzione alle parole. Se non vogliamo giocarci anche le bouche d’Hercule (scusate il francesismo).
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