Governo
L’astuto colpo dell’audace Matteino
Avevo detto a uno dei nostri “capi” degli Stati Generali che avrei atteso i decreti prima di parlare del Jobs Act perché gli annunci non reggono alla prova di fatti. Pensavo di essermela cavata cosí ma da cattivo scolaro sono stato richiamato all’ordine. La simpatia per Pietro Ichino mi rende ulteriormente difficile parlarne ma, alla fine, ad un imprenditore cosa cambia con il Jobs Act? Devo dire non molto, se parliamo della maggioranza degli imprenditori saldamente ancorati sulla piccola dimensione. Cambia molto per i sindacati, pur se lo strepitare è più frutto di una difesa un po’ campanilistica e molto meno contenutistica. E uso il termine campanilistica perché, silurando il progetto di Landini del dare una risposta “politica” a Renzi, la CGIL da una parte ha ribadito la differenza tra far politica e fare sindacato e dall’altra ha implicitamente rinunciato alla risposta politica che è l’unica da dare in questo caso al Presidente del Consiglio, giacchè la natura dei cambiamenti sono più “politici” che sostanziali. Quale è in sostanza la risposta politica da dare?
Il Jobs Act è stata una astuzia un po’ perfida, perché ha spostato il problema del Paese dal fattore capitale al fattore lavoro, facendo credere a tutti che la questione centrale fossero le regole di quel mercato. E’ falso? No, i problemi c’erano, eccome. Ma la questione centrale del Paese non è il “lavoro” come regole e come fattore ma quella dalla quale il Presidente del Consiglio si sottrae da sempre, e cioè il ruolo e il peso “Stato” nella nostra vita, come regole e come costi.
Brutalmente: un imprenditore che è ben posizionato sui mercati internazionali e che deve effettuare un investimento, cioè l’unico parametro che ci dice quanta fiducia abbia nel futuro del suo lavoro e l’unico sul quale misurare i segni di ripresa, questo imprenditore troverà nel Jobs Act un fattore determinante per decidere di investire in Italia invece che altrove? La risposta è semplice: no, perché il fattore lavoro viene dopo.
L’unico, vero parametro per valutare un investimento è l’impatto sulla remunerazione del capitale investito e con l’attuale livello di pressione fiscale non c’è gara: il medesimo investimento rende meglio se atterra altrove e questo è ciò a cui deve guardare l’imprenditore, per il bene della sua azienda e per il bene dell’Italia. Perché dell’Italia? Perché possiamo usare tutte le astuzie possibili ma sono le situazioni di crisi che offrono la possibilità di riforme profonde, in azienda e nello Stato. In azienda le abbiamo fatte e le faremo; lo Stato non le ha fatte ed è lo stesso, nelle sue strutture e nelle sue regole, di quello del 2008: anzi, il suo costo aumenta e le speranze nel QE di Draghi e nel riavvio delle opere pubbliche sono legate a trovare il modo di pagarne i costi senza toccarne la struttura, mantenendo il Paese in una condizione di minor competitività cronicizzata. In una parola, se gli altri nei prossimi anni cresceranno anche solo del 1% noi cresceremo meno, consolidando quel declino al quale ci riferiamo da anni perché il fattore fondamentale che determina i risultati netti dei nostri sforzi è rimasto intatto. Per intenderci: il 25% del Paese che vive e lavora in regime di concorrenza non avrà mai più margini tali da pagare i costi di ciò che in concorrenza non è.
Ecco perché sto declinando inviti a dibattiti per parlare di Jobs Act. Perché sembrerei un fautore del benaltrismo; perché dovrei prendere attacchi feroci da chi attaccando il JA pensa di difendere i deboli senza avere io la possibilità, se non puramente dialettica, di dimostrargli che sbaglia; ma avendo nel cuore la consapevolezza che non sarà coi fatti che potrò empiricamente dimostrargli che io ho ragione.
L’astuzia mediatica di giocarsi tutto sul lavoro ha funzionato. Ma la magia del mettere mano a questo scalcagnato Paese non sembra ancora appartenere all’oggi della politica.
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