Governo
Ingegneria politica e riforme costituzionali in Italia
La stagione dei dibattiti sulla riforma costituzionale in Italia sembra non essersi mai chiusa dagli anni Settanta. Ogni proposta è però rimasta talmente inascoltata che perfino il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica si è consumato al riparo da «scossoni» costituzionali. Da allora – vale a dire dal 1992 – la Costituzione ha subìto piccoli ritocchi; ritocchi che non hanno coinvolto il rapporto tra organi istituzionali né modificato, sia pure «di striscio», il sistema di governo. Lo scopo dell’articolo è quello di rivalutare i diversi modelli di governo alla luce degli strumenti dell’ingegneria costituzionale. Ma facciamo un passo indietro.
Nel 1991, la rivista «Il Politico» ospitò una serie di interventi ad opera di costituzionalisti e politologi, volti a discutere la proposta di modifica del parlamentarismo italiano avanzata da Giovanni Sartori. Tali contributi ebbero il merito di ripercorrere, in prospettiva comparata, pregi e difetti di ciascun sistema di governo. Conviene, dunque, che io riparta da qui.
Per cominciare, è utile dividere i sistemi di governo in questo modo: da una parte i sistemi puri, i sistemi «a un motore»; dall’altra i sistemi misti, anche detti sistemi «a due motori». Il sistema puro per eccezione è il presidenzialismo di tipo americano, caratterizzato da due immancabili contrassegni: l’elezione diretta del capo dello Stato, che monopolizza il potere esecutivo in assenza di un «Governo» propriamente detto; e una radicale separazione dei poteri, tale per cui il Presidente governa e il Parlamento controlla. Ma i pregi del presidenzialismo sono anche i difetti del presidenzialismo. Il motivo è presto detto: l’elezione diretta concede al Presidente stabilità (il Presidente resta in carica per tutta la durata del mandato), ma la stabilità impedisce – quando serve – di rimediare all’inefficienza. Importa che io spieghi perché.
Dicevamo che il presidenzialismo americano è caratterizzato dalla rigida separazione dei poteri. Resta vero, però, che gli atti del Presidente devono passare per il controllo del Parlamento. E in caso di Parlamento a maggioranza avversa al Presidente, il motore si inceppa: non cade il Presidente, ma cadono i suoi atti. Ne deriva che la condizione di funzionalità del presidenzialismo puro è data dalla maggioranza monocolore, dalla maggioranza di un organo che sostiene e rinforza l’altro.
Dal presidenzialismo puro si arriva al presidenzialismo misto attraverso il sistema di governo francese: il semi-presidenzialismo. Anche qui, due princìpi: l’elezione diretta del capo dello Stato; e la divisione del potere esecutivo tra il capo dello Stato e un capo del Governo di investitura parlamentare. Questi, dunque, i due motori della macchina. In tal caso, e a differenza di quanto visto con il presidenzialismo puro, il Governo è un organo autonomo e costituzionale, vale a dire appositamente previsto dalla Costituzione. Ma in che modo il semi-presidenzialismo sopravvive alle rigidità del presidenzialismo?
Abbiamo detto che nel sistema di governo francese l’esecutivo è bicefalo, a due teste. La differenza sembra minima, ma fa la differenza. Infatti, in caso di maggioranza parlamentare avversa al Presidente, quest’ultimo ha qui la possibilità di costruirsi un «ponte» alternativo tramite la nomina di un Primo Ministro che consegua la fiducia dell’assemblea. Sarà quest’ultimo, nei cosiddetti casi di «coabitazione» (coabitazione, s’intende, con un Presidente in minoranza) a prendere le redini dell’esecutivo. Come si vede, quando il primo motore – che è il motore presidenziale – si inceppa, un secondo motore interviene a salvare la macchina, e il secondo motore è il Governo costituzionale. Il punto da rilevare, quindi, è che il semi-presidenzialismo produce degli anticorpi che il presidenzialismo non ha. Bastino, a titolo di riprova, le osservazioni sopra avanzate.
Passiamo ora all’esame delle diverse forme di parlamentarismo. I sistemi parlamentari si articolano su due diversi pilastri: la sovranità del Parlamento e la condivisione dei poteri, da cui il rapporto di fiducia – altrove assente – che lega Parlamento e Governo. Ma questo secondo pilastro – la condivisione dei poteri – rappresenta, o dovrebbe rappresentare, il prius al primo pilastro, la sua àncora di salvataggio. In un sistema che funzioni, la sovranità del Parlamento è tale soltanto nella misura in cui il potere che ne deriva venga condiviso con il Governo; altrimenti, «sovranità» parlamentare diventa soltanto un artificio che nasconde onnipotenza parlamentare. È proprio il caso, questo, del parlamentarismo assembleare: un sistema imperniato sui ricatti della maggioranza parlamentare ai danni del Governo, e in cui il potere condiviso diventa potere assoluto (e auto-distruttivo).
Nondimeno, i sistemi parlamentari sono, per natura, sistemi flessibili: sono flessibili perché il motore parlamentare non si inceppa allo stesso modo, e con la stessa facilità, del motore presidenziale. A questo effetto, e per ipotesi, una maggioranza parlamentare forte si difenderebbe dalla minaccia dello scioglimento investendo un altro Governo, ugualmente inerme. Quindi, per riassumere, il motore non si blocca, ma lavora a basso regime.
Anche qui, d’altra parte, il passaggio dal parlamentarismo puro al semi-parlamentarismo è contestuale al trasferimento di potere che l’organo sovrano – il Parlamento – realizza in favore del Governo costituzionale. Proprio in relazione alla quantità di potere riconosciuto – strutturalmente, e irrevocabilmente – al capo del Governo, si distinguono tre configurazioni di regime parlamentare: il premierato forte (modello Westminster), in cui il Primo Ministro è un primo sopra ineguali; il premierato intermedio (Kanzlerdemokratie tedesca), in cui il Primo Ministro è un primo tra ineguali; e il premierato debole (modello italiano), dove il Primo Ministro è un primo tra eguali. Ma questo è un terreno scivoloso, e non conviene batterlo ulteriormente.
Come che sia, il punto da fermare è che l’inefficienza dell’assemblearismo – il caso tipico della Terza Repubblica francese – è in buona parte l’inefficienza del sistema italiano, in cui il capo del Governo a) non può sciogliere le Camere, b) non può nominare né revocare, del tutto discrezionalmente, i membri del Gabinetto e c) non è necessariamente il leader del partito uscito vincitore dalle elezioni. Eppure, malgrado tutto, i più lamentano «evidenti» rischi di deriva «autoritaria», anziché – come sarebbe opportuno – quelli di deriva «assembleare».
Torniamo ora alle proposte di modifica del parlamentarismo italiano. Anzitutto, è bene specificare che dalla nostra rassegna abbiamo tralasciato il governo direttoriale, un sistema sui generis adottato – attualmente – soltanto dalla Confederazione elvetica. In secondo luogo, e per ragioni di «distanza» dall’esperienza italiana, i sistemi di governo presi in reale considerazione per una riforma in Italia si riducono a tre: a) il semi-presidenzialismo francese, b) il cabinet government britannico e c) il cancellierato tedesco. Valutiamone, partitamente, l’applicabilità.
Il sistema francese ha tanti estimatori quanti detrattori. È, tra tutti, quello che esigerebbe la maggiore metamorfosi costituzionale. In particolare, il Parlamento vedrebbe sottratta parte della sua sovranità in favore di un capo dello Stato di investitura popolare. Il che implicherebbe, tra l’altro, l’introduzione di una formula a sé per l’elezione presidenziale (presumibilmente, un maggioritario a doppio turno con ballottaggio). In ogni caso, il punto di rottura tra favorevoli e contrari al semi-presidenzialismo sta nelle differenti previsioni circa i tempi di adattamento della comunità politica alle nuove regole del gioco.
Il premierato britannico ha il merito di mettere d’accordo i più; e, data l’animosità della questione, non è un merito di poco conto. Qui, il Governo è – dicevamo – un Governo forte, tale per cui risulta, davanti al Parlamento, il primo motore della macchina. Ciò si spiega in ragione dei poteri che sono attribuiti convenzionalmente al premier: tra tutti, il potere di nominare e revocare i Ministri; e, soprattutto, il potere di scioglimento della Camera elettiva. Inoltre, il suo essere leader del partito vittorioso alle elezioni concede al capo del Governo una prerogativa di contro-ricatto parlamentare che giustifica, di fatto, la denominazione «cabinet government».
Il problema con il modello inglese è che rimane difficile da «acchiappare» con le reti dell’ingegneria costituzionale; è – per così dire – di difficile importazione. La ragione è duplice (e rimane sostanzialmente quella data nel 1991 da Sartori): da una parte, occorrono partiti che accettino il principio della leadership e che vengano strutturati di conseguenza; dall’altra, e ancor più significativamente, il sistema britannico si tiene su governi monopartitici confezionati da un sistema bipartitico che garantisce alternanza.
Rimane, dunque, il sistema tedesco. Il cancellierato non è, strutturalmente, così lontano dal modello italiano. Eppure risulta, alla prova dei fatti, molto più solido: dal 1949 ad oggi si sono susseguiti meno cancellieri tedeschi (otto) che premier inglesi (quindici). Tale solidità dipende da due fattori su tutti: il riconoscimento – come nel caso britannico – del principio della leadership; e il voto di sfiducia costruttivo, pensato dagli «innovatori» del secondo dopoguerra per razionalizzare la forma di governo parlamentare. Questo istituto consente al Parlamento di sfiduciare il Governo in carica soltanto proponendo – contestualmente, e a maggioranza assoluta – un nuovo Cancelliere; altrimenti, benché sostanzialmente «sfiduciato», il Governo continua ad operare. Peraltro, il cancellierato non è di ardua «fabbricazione»: dunque, basterebbe poco per cambiare molto.
Al termine di questa panoramica comparata, torniamo – per concludere – a noi. Com’è noto, la legge di riforma costituzionale «Renzi-Boschi» ritocca il rapporto tra le principali istituzioni ma non modifica il sistema di governo, che rimane ancorato ad un esecutivo tecnicamente debole. Nondimeno, va riconosciuto il tentativo di migliorare la stabilità governativa per via dell’esclusione del Senato dal rapporto fiduciario. In questo, e nella diversificazione della composizione e dei compiti delle Camere, si ravvisa un timido avvicinamento alle esperienze europee. Se basterà, per rimettere in moto una macchina ingolfata, rimane da vedere. Ma le premesse – quantomeno alcune premesse – non suggeriscono i migliori pronostici.
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