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In morte di Alfa Alfa, la spericolata vita di un “ex 007”
È morto Aldo Anghessa. Il mitico Alfa-Alfa, l’agente Lotti-Ghetti, il Comandante Manfredini. Scegliete pure tra le sue mille maschere di successo. È morto solo, come ha sempre vissuto, anche quando era in mezzo agli altri, attore di una spettacolare pièce teatrale, di cui era autore, protagonista e regista, e che aveva preso fin da giovane il posto della sua vera esistenza, dei suoi veri sentimenti, del suo vero io.
La stampa comasca e ticinese, che ancora si ricorda di lui, all’annuncio della morte non sapeva nemmeno come definirlo. Alla fine hanno scritto “ex 007 bergamasco”, ma Aldo non era nulla di tutto ciò – non era mai stato un agente dei servizi segreti, era la sua facciata pubblica per spillare quattrini alle sue vittime. Non era bergamasco, era di famiglia siciliana ed aveva passato quasi tutte le sue innumerevoli vite tra Como, Chiasso, Bellinzona e Casco, un villaggio sperduto sulla collina dietro Bellagio, dove non poteva trovarlo nessuno, e dove, nei momenti in cui non “spillava” abbastanza soldi per vivere, veniva campato da una farmacista, perdutamente innamorata di lui: perché Aldo aveva occhi azzurri forti e penetranti, era galante, e mascherava benissimo la sua totale incompetenza su qualunque argomento, e molte donne lo hanno adorato – e non solo perché è stato il più grande genio della millanteria che abbia mai conosciuto.
Messa così, sembra che io lo disprezzassi, ma vi sbagliate. Gli volevo un bene contraddittorio e difficile, ma come tutti coloro che lo amavano (compresi i suoi due figli, soprattutto i suoi due figli), cercavo di stargli il più lontano possibile, perché lui aspirava le vite altrui e manipolava tutto e tutti, come lo scorpione che attraversa il lago sul dorso di una rana. Eppure, quando ero all’inizio della carriera, e mi trovai nei guai, fu l’unico ad aiutarmi veramente – per poi, una volta che fossi tornato in equilibrio, tirarmi una fregatura solenne, la prima tentata e l’ultima che gli sia riuscita, perché poi ero diventato prudente. Ma non mi illudo che abbia mai provato vera amicizia per chicchessia, anche se era veramente spiritoso. Una volta feci un viaggio insieme al mio suocero di Lipsia. Ci incontrò nella piazza principale di Locarno, uscì da dietro una colonna con fare minaccioso, coperto da un tabarro ed un cappellone da gangster degli anni 30, ed Helmut credette davvero di aver incontrato il Diavolo in persona, o almeno il capo della sua guardia personale. Spesso, se eravamo a tavolo con il suo pubblico, fingeva di sussurrare qualcosa a me o a altri nell’orecchio. Dava l’impressione di spionaggio, diceva.
Una volta, in un costosissimo ristorante di Bellagio, c’era una famiglia americana che mangiava spaghetti in bianco su cui aveva spremuto del ketchup. Aldo andò loro incontro e li imboccò dal suo piatto, facendo loro assaggiare la differenza. Quelli non sapevano come comportarsi, capirono solo di aver fatto una figuraccia. Anche perché ciò che Aldo chiamava “parlare inglese” assomigliava al “nous voulevons savuare” di Totò. Conosco molti contrabbandieri e trafficanti d’armi e rifiuti tossici che lo adoravano come una sorta di innocuo incantatore di serpenti. Ma non era innocuo. In galera, ancora oggi (a meno che non sia morto) c’è un altro trafficante, ex agente dei servizi, sodale di Francesco Cossiga, che Aldo aveva convinto a pranzare con il generale Ba, uno dei capi militari del RUF, la milizia mercenaria del dittatore della Liberia, Charles Taylor, per vendere ai liberiani una partita falsa di mitragliatori e poi farli arrestare in blocco per le stragi che il RUF ha compiuto in Sierra Leone. Quell’agente, un altro spostato, ci andò con la moglie, per impressionarla. Il miliziano le fece una corte serrata, la ragazza era colpita e civettava. D’un tratto il generale guardò a brutto muso l’agente del SISMI e gli disse, passando improvvisamente dall’inglese all’italiano: “Questa è una puttana, è pericolosa per il nostro mestiere, meglio che te ne liberi”. Tirò fuori una pistola e le distrusse la testa con un colpo a bruciapelo, per poi alzarsi e sparire nella calma oscena ed afosa di Monrovia. Aldo riportò il malcapitato in Italia, che è impazzito, non si è mai più ripreso.
Aldo non usciva mai dal personaggio, nemmeno quando rischiava la pelle o sfondava il muro del ridicolo. Una volta solo lo vidi per come era davvero. Aveva passato un anno in galera, era distrutto, non aveva un centesimo, non sapeva dove andare, era percorso da tremiti incontrollabili, era sporco e disordinato (proprio Aldo, che ci teneva tantissimo ad ogni dettaglio), inciampava sulle frasi, gli veniva da piangere. Mia moglie Kerstin ed io abitavamo a Menaggio. Lo portammo a casa e lo tenemmo lì per una settimana, ed era come avere in giro un bambino triste e confuso, che faceva discorsi che non ha mai fatto prima, e dopo mai più. Mostrava finalmente la paura che ha caratterizzato tutta la sua vita, e che è stata la sua grande forza, perché con quel terrore alle spalle era capace di qualunque cosa, di viaggi interminabili senza dormire mai, di atti di un cinismo inenarrabile, di mentire in modo goffo ed al contempo elegante, di minacciare in modo da far spavento a chiunque. E di spillare soldi, usando tutti, promettendo la luna per poi darti un ciottolo avanzato dal ciglio per la strada, spacciandolo per pietra venusiana.
Voleva fare il paracadutista, lo scartarono. E poi lo scartarono dai marò, e lui doveva aver combinato qualche marachella, perché scomparve dalla circolazione, lasciando dietro sé una fidanzata incinta, e riemerse qualche anno dopo (aveva fatto il commerciante di legnami a Beirut, ed era finito talmente nei guai da dover scappare a piedi in Israele, farsi arrestare per vagabondaggio e rimpatriare in Italia), come una talpa da un cunicolo lungo quanto il mondo, a metà strada tra Bellinzona e Locarno, dove aveva incontrato una locandiera, l’aveva sposata, aveva avuto un secondo figlio, ed aveva iniziato a millantare per vivere. Il metodo era sempre lo stesso. Leggeva i giornali e, quando incontrava un’inchiesta penale interessante, parlava con i giornalisti che ci lavoravano su e si inventava una verità alternativa.
A quel punto faceva tre cose: si presentava al magistrato sostenendo di essere un ex agente dei servizi, ora free lance, che aveva nuove prove – e chiedeva soldi. Poi si presentava dagli indagati, prometteva loro protezione tramite depistaggi o grazie a prove che inguaiassero altri amici – e chiedeva soldi. Poi parlava con i giornalisti e costruiva per loro una bella storia alternativa – 50% vera e 50% falsa. Quella falsa, a volte, la costruiva con documenti veri. Ha fatto così anche con me, la prima volta. Mi dava del lei, mi faceva sentire importante, mi invitava a pranzo o a cena in un costoso hotel di Como, dove non pagava, perché ricattava il proprietario. Quello gli aveva dato i documenti per proteggerlo in uno scandalo, ed Aldo li aveva dati al magistrato. Era un uomo intelligente e, spesso, inventando indovinava la verità, come la volta che fece un giro di giostra con un faccendiere italiano a Londra, quasi cieco, che gli raccontò la verità sulle tangenti di Telekom Serbia, almeno due anni prima che la scoprissero i magistrati.
Aldo era diventato famoso per l’invenzione del “mercurio rosso”, che lui sosteneva fosse una sostanza che rendesse gli aerei invisibili ai radar, ed usò una storia vera di contrabbando di armi tra Trieste e la Slovenia (che allora era ancora Jugoslavia) per accreditarsi, e ci campò per anni – per giunta imbarcandosi su una nave di contrabbandieri, la Boustany One, cui lui promise protezione e poi vendette alla magistratura. Durante la guerra in Bosnia Aldo scoprì un vero caso di truffa ai danni del neonato Stato sloveno e lo denunciò alle autorità tedesche – ma era un’inchiesta che toccava personaggi eccellenti. La magistratura di Monaco di Baviera mandò un ispettore in incognito ad indagare, nonostante Aldo lo avesse sconsigliato, e quello venne accoppato a Trento, lui e la moglie, ed il magistrato locale (che poi ha fatto una lunga e fortunata carriera) non riuscì a venirne a capo. Io scrissi due storie importanti per la stampa tedesca, ed Aldo mi fece incontrare un trafficante sloveno, un uomo spaventoso, che ora sconta l’ergastolo in Australia per omicidio plurimo, pedofilia e furto d’auto. Un altro matto scocciato.
Tutti i procuratori che hanno lavorato con lui sono finiti nei guai, perché dopo un po’ non capivano più cosa fosse vero e cosa falso. Si fece intervistare dalla RTSI (la TV di Stato ticinese) e raccontò che c’era una bomba atomica dimenticata in una cassa alla Dogana di Ginevra, e diede persino i numeri di serie della cassa. Come li aveva avuti? Si era offerto di vendere arsenico ed esplosivo per conti di alcuni contrabbandieri dominicani, e poi diede i dati di quella cassa alla Polizia Cantonale. L’ufficiale ginevrino che fece gli arresti mi raccontava, piegato in due dalle risate, di quando avevano identificato e sequestrato la cassa, sulla quale un operaio stava seduto e consumava un panino con la salsiccia ed una birra. Gli avevano detto di non muoversi, che era forse seduto su ordigno nucleare, e quello aveva vomitato dallo spavento e poi era svenuto.
Quando smisero di credergli, lui compì quello che, secondo me, è stato il suo capolavoro. Il console onorario zurighese di un paese sudamericano era in pensione, sua moglie stava morendo di cancro, lui aveva finito i soldi, e vendette il contenuto dei bagagli di tutti i cittadini del paese sudamericano che, nel corso degli anni, erano passati da casa sua e poi erano spariti. Mise degli annunci sul giornale (un altro matto, poverino), ed in uno scrisse che aveva una valigetta contenente una boccetta d’uranio più un liquido rosso non identificato. Aldo gli disse: sono Alfa-Alfa, alias Comandante Manfredini della CIA, ci penso io. Chiamò due corrieri della mafia siciliana residenti in Ticino, scampati alle inchieste truccate della magistratura luganese, due bulli da baretto slavo di periferia ed un vero intermediario d’armi russo, ed organizzò un incontro a Zurigo per vendere uranio arricchito e mercurio rosso. Una stronzata. Ma la Polizia di Zurigo ci credette, arrestò tutti, Aldo incassò la taglia. In fondo, nessuno dei convenuti era veramente innocente. Questo giochetto lo ha fatto mille migliaia di volte, finché è inciampato sul fatto che la magistratura avesse deciso di vendicarsi e lo buggerasse per i tanti soldi truffati alla Polizia. Tra le altre cose dicevano che avvertisse che ci fossero bombe sui treni, incassasse la taglia, e poi si scopriva che l’ordigno non era innescato, ed al processo dissero che le bombe le avesse messe lui.
Aveva un talento per scoprire e turlupinare matti scocciati, come Guido Garelli, che si era inventato uno Stato inesistente nel deserto della Libia meridionale, ed aveva iniziato a comprare e vendere armi, oro, petrolio, ed a sotterrare rifiuti tossici. Aldo gli rubò la moglie (che è poi stata la madre del suo ultimo figlio, una bambina), poi spifferò tutto a tutti, e Garelli finì prima in prigione, poi in manicomio. Mi diceva: i matti di quel tipo li annuso, perché so fin troppo bene come sono, nel profondo delle loro anime. Con me non possono mentire – diceva – perché il Signore di tutte le bugie sono io, gli altri sono solo patetici dilettanti. E nella sua ultima corsa, che lui sperava fosse vera e pulita, alla ricerca di un contratto di fornitura di gas ucraino, ce la mise tutta, mise nei guai i figli (e, se non fossi stato attento e non mi fossi “sfilato”, anche me), e poi dovette scappare a Dakar, perché sapeva bene che, di nuovo in prigione, ne sarebbe morto. In quella ultima corsa, in cui veramente era stato onesto, fallì perché non sapeva lavorare in squadra, e si era circondato di imbecilli assetati di soldi e senza nessuna competenza, che fecero fallire l’operazione.
Non ha mai avuto amici, ha odiato sé stesso con tenacia e disincanto, per tutta la vita ha rincorso il sogno di diventare un vero eroe, di essere veramente lo 007 che si spacciava di essere – ed ha sofferto sapendo che non lo sarebbe mai stato, e che proprio questo gli permetteva di guadagnarsi da vivere. Per questo gli ho voluto bene, perché lo capivo. Perché, anche se professionalmente mi ha creato qualche problema, quando si trattava di scrivere, scrivevo solo ciò che sapevo fosse vero e documentabile – e lui si arrabbiava tantissimo, e spariva per mesi. Una volta mi ordinò di scrivere un articolo, io dissi di no, lui scomparve per oltre un anno, e poi ricomparve a bordo di una Lotus (sembrava la Delorian di Back to the Future…), davanti al portone del settimanale zurighese per cui lavoravo. Come se non fosse accaduto nulla.
Ma era solo, sempre solo: tradiva tutti, poi mendicava aiuto, ed è morto solo come un cane, in esilio, a Dakar, dimenticato e screditato. L’Italia in cui lui tramava era quella degli anni 70, nel nuovo secolo era fuori posto, non si sapeva più comportare, i suoi trucchi non funzionavano più, la gente era cambiata. Che sia morto l’ho letto sui giornali, e mi ha fatto una pena tremenda. A lui devo delle lezioni di vita che non dimenticherò: non quelle di faccia tosta, ma di quale prezzo insopportabile si possa pagare per essere sempre e coerentemente un millantatore, un manipolatore, un cinico scorpione. Non lo sentivo più da quasi vent’anni, ovviamente. Ma non l’ho mai dimenticato. Nella mia straordinaria galoppata nella vita, Aldo Anghessa resta indimenticabile. Per questo, come un nonno ai suoi nipotini, intorno al fuoco, ho voluto raccontarvi di lui. Nessun altro dei giornalisti che lo conoscevano bene ed hanno lavorato con lui avrà mai il coraggio di farlo.
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